Opere » Gide nel millenovecentotrentotto: Visita ad un utopista
da "LA FIERA LETTERARIA", 28/8/1949
"Nel mio socialismo non C'è posto per la giustizia imposta oggettivamente. Io ho sempre difeso la libertà dell'individuo e ho preferito la giustizia sentita, espressa come atto di amore, di fraternità umana, alla giustizia fredda e anonima dello "Stato".
Ero allora redattore della rivista "Arts et Idées" diretta dal segretario d'André Gide, Lucien Combelle, un giovane la cui qualità di critico erano affini, per acutezza di stile e perspicacità, a quelle di Remy Gourmont. Nella primavera del 1937, mi pare vi pubblicai un saggio su Pirandello. L'amico Combelle mi disse che Gide lo aveva letto (come pure un altro su Valéry), e che s'era espresso, a proposito, in modo che mi riuscì assai lusinghiero.
Nacque in me la speranza di conoscerlo personalmente. Gli fui presentato qualche giorno dopo. Prima di giungere al suo studio, dovetti attraversare dei corridoi in cui migliaia di volumi sembravano fare scorta al mio silenzioso passaggio. Lo trovai comodamente seduto su una poltrona. Mi accolse con semplicità affabile.
Fumava ed era vestito di velluto marrone. Il cranio calvo e sotto i due folti sopraccigli grigi gli occhietti sfavillarono nella stanza illuminata. Espressi subito, timidamente, la mia ammirazione per il libro che avevo riletto di recente: La Porte Etroite. Gli dissi che il pathos infuso in quelle pagine, il segreto mistico, mi avevan comunicato emozioni nuove. Gide mi ringraziò con un sorriso e disse: "Ho sentito molto il tema di questo libro; l'argomento è, in sostanza, la mia stessa esistenza di cristiano". Le sue parole destarono in me un vivo interesse. Benché timido e titubante, osai fargli delle domande sulla sua opera. Mi rispose amichevolmente, con semplicità, con simpatica indulgenza. "Generalmente", dissi, "limitando il giudizio sulla vostra arte muovendo da Oscar Wilde e, in certo modo, da Dostoijewsky".
"Estetismo e psicologismo sono termini imprecisi e insufficienti", mi rispose Gide. "Evidentemente, la critica francese ed europea ha trascurato l'elemento giansenista e, per così dire, rivoluzionario, che costituisce l'essenza delle mie opere. Non nego una certa influenza, anzi affinità con Oscar Wilde; ma io ho lavorato sempre alla ricerca di una soggettività più complessa. Il mio cristianesimo è quello della colpa e della rivolta. Io sono con l'uomo assoluto e contro ogni grigio conformismo; qui c'è lo sforzo per costruire l'uomo e la sua libertà terrena. In questo il mio maestro immediato è Gesù, più dello stesso Nietzsche, dal quale ho per così dire imparato l'arte della rivolta".
"Infatti", replicai, "nella vostra apparente serenità c'è un'agitazione sotterranea che costituisce la vostra migliore umanità. Il dramma di Gesù è in fondo il dramma di ogni uomo che si pone alla ricerca di Dio. In questa prova si incontra il mondo, la terra che si complica, la storia".
" Per questa ragione io curo la sensibilità esasperata e la mia arte lotta tra un misticismo raccolto e la razionalità dalle situazioni umane vissute drammaticamente.
Nelle Nourritures terrestres il problema era la ricerca di una sostanza poetica decisamente panteistica. La natura io la sentii misticamente, anche perché dovevo appagare una sincera valutazione della terra. In quel libro mi liberai dal paganesimo gioioso venutomi da Nietzsche, attraverso Oscar Wilde. Poi il mio spirito fu preso da problemi più umani e mi accinsi alla ricerca dell'uomo e dei suoi segni più concreti: la sua rivolta da ogni conformismo ipocrita e la sua libertà dalla colpa. Gesù fu il mio grande amico in questo modesto e limpido viaggio attraverso la storia interiore dell'europeo cristiano. La mia opera di moralista resta il tentativo oserei dire frammentario di questo desiderio di chiarezza e di disperata analisi. Si trattava di disgregare l'elemento appassito dalla polla ancora sana del messaggio più vero. L'anarchia di Gesù mi sedusse fino a farmi rinnegare una morale logora che, in realtà, aveva offeso la purezza di quel linguaggio preciso. E allora pensai a compiere una piccola rivoluzione. Fui additato come uno scandalo perché suggerii le vie della sincerità, cosa molto difficile in una Europa filistea e accasciata da un bigottismo ottuso. Fui additato come esempio d'immoralità e di corruzione, mentre, in fondo, nei miei libri si veniva ordinando non solo lo stile della lingua francese, ma si delineava la persona cristiana in un atteggiamento di sana violenza.
Non ho mai tollerato la mistificazione di una civiltà che ha preso come suo elemento l'oppressione attraverso la ipocrisia e la paura. Per questa stessa ragione, ad un dato momento della mia vita, mi orientai verso il socialismo. Non ero stato mai un convertito a questa idea. I borghesi - come sempre - si sono sbagliati nel giudicarmi un convertito o un neofita del marxismo.
Nel mio socialismo tuttavia non c'è posto per la giustizia imposta oggettivamente. Io ho sempre difeso la libertà dell'individuo e ho preferito la giustizia sentita, espressa come atto di amore, di fraternità umana, alla giustizia fredda e anonima dello "Stato". I posteri soltanto giudicheranno questa mia preferenza o, se volete, distinzione: tra creazione esteriore dell'elemento sociale e creazione di una umanità nuova attraverso una creazione interiore della persona dell'uomo non ancora definitivamente cristiano". A questo punto lo scrittore si fece silenzioso e inforcò gli occhiali per leggermi alcuni frammenti inediti del suo Journal. Quando fu stanco mi accorsi che desiderava rimaner solo. Scambiammo qualche altra frase; poi, ringraziandolo di quell'accoglienza veramente cordiale, ci salutammo.
A casa, quando stesi l'articolo, mi convinsi che Gide doveva essere aggiunto alla già ricca compagnia degli utopisti, dei poeti che ingenuamente credono nella virtù dell'amore e nella rivolta come espressioni individuali. Mi convinsi anche che il suo socialismo borghese era fuori della storia e completamente assente dalla crudele lotta di classe, che in quel periodo, in Francia e nel mondo, si esasperava proprio in virtù di un accentuato reazionarismo delle borghesie fasciste.