Opere » Sugli occhi e per sempre
intervento critico di Giuseppe Marchetti, "La Gazzetta di Parma"
Questo libro potrebbe rimanere tra le poche opere importanti della poesia italiana del Novecento. Ci sembra che non si debba aggiungere altro.
Giuseppe Marchetti
intervento critico di Giorgio Caproni
Sugli occhi e per sempre è un'opera che mi ha colpito profondamente. Dico un'opera, non un semplice libro (o una semplice raccolta), perché davvero ha il respiro del poema. Non sono un critico, e quindi non so dirti in termini critici le ragioni che mi rendono così care queste tue pagine. Quanta ricchezza e levità di immagini, di invenzioni, di continue illuminazioni e trascolorazioni. La tua fantasia - come la Natura - è inesauribile; e ammirevole è la trasparenza di ogni tuo verso (aria e luce), che entra nell'animo (carne e spirito) per restarvi. Leggendoti sembra di entrare in un bosco di continuo stormente, con le sue continue sorprese di luci e di ombre. O, anche, sembra di ascoltare un'antica sinfonia, coi suoi bassi profondi e i suoi deliranti acuti, dove la molteplicità e complessità della strumentazione non fa che mettere in risalto, sostenendola, la varietà e agilità della melodia. Non sembri nemmeno un poeta italiano, tanto sei lontano dalle attuali mode o maniere. Semmai, assomigli di più a un poeta immerso nell'ultima grande onda romantica, che tu riesci, quasi miracolosamente, a inserire con forza e con grazia in questo nostro « disastrato» presente.
Giorgio Caproni
da Sugli occhi e per sempre
SOPRAVVIVENZE
I. a mia madre
Nei tronchi da tempo giace un nodo che fu lamento
D'uccello nella nebbia d'anni dimenticati; e l'aria
Non al celeste volge la sua gota in allegria con squilli
Di rondini incenerite. E il tempo s'addolora sui nidi
Che il vento svuota per la notte, quando un raggio di stella
Da sé va più lontano o geme sulla terra il filo
D'erba, che fu lieta ai mattini.
Già sui muri, nell'inverno, spuntano macchie
Di ruggine e gli aloni son facce non più vive
Al moto delle vie. Sbattendo un'ombra, che torna
A sugger la vita e l'ora già scandita da un campanile
È il tocco d'una morta da noi dimenticata.
E qui, se il canto giunge di una fanciulla
Che il sonno sveglia nel mezzo della notte,
È più dolore che dolcezza e gli occhi bagna
Di un pianto il suo delirio; e poi che sbianca
All'eco della sua voce sembra calare in noi,
Colma di giovinezza, come da un abisso in sé nascosto.
Anche le pietre agli usci incise da passi,
Ormai soltanto nel silenzio echi di visi andati
Di là dal mesto vuoto che l'addio scandisce,
Hanno il colore delle cose e mai la luce
D'una sera per gli occhi di chi, sperando, accenna
Ad un saluto, scava in sé le tracce
Pur sia d'un giorno umanamente a noi legato
Dal semplice calore d'un incontro.
Ciò che fu non ama che il mistero d'una stele:
Un lembo della luna inciso con parole.
Sfuggite al sogno in un istante: bianco d'eternità.
E qui, sul colle, è neve il mio dolore d'uomo;
Il tuo sostare, a sera, dove appena
Il vento è murmure di foglie abbandonate
E dentro un vuoto lungi, a volo spento,
Van lontano dagli occhi avvinti al buio.
Allora s'ode il mormorio d'un'acqua dentro il petto;
E sbigottisce l'anima, che a sé torna da un luogo
Non più terreno ma del cielo; e un fiore
Immaginato cade da una luce che fu del sole;
E non è vero tanto è qui lo strazio per le vene.
Torna il brusio in un incavo d'ombra
E tocchi albe defunte, appena scorgi il fumo
Che a ponente, a cerchio, segue il moto di luna.
E torni indietro in un paese, a picco sugli abeti;
E se ti è oscura la memoria, un tonfo in lontananza
Ti riporta all'infanzia o ai giorni d'una festa
Che torna a farsi eco e intacca l'aria,
Ma di ferite e poi d'alti lamenti
Nel cielo che s'incurva e ti fa bianco
Per un istante. E qui tramonti in te.
S'ode in un punto della piazza accesa il ticchettio
Di due scarpine; e un lembo della veste
Pare un'ala per gli occhi ed è visione
D'amore, in te cresciuta giorno dopo giorno,
Perché sia vero il tempo e certo il tuo dolore.
Eppure un lembo della notte è vita e altrove moto
D'immagini, sorelle d'ogni piaga o vaghi
Lumi d'astri in allegria, che getta per il terreno
Ciò che strazia e annienta e ricompone,
Per una veglia che prolunga, il sogno; e a noi riporta
Le stagioni finite. E il labirinto è fatto
D'una celeste musica per archi,
Che sono uccelli volati con ferite e gemme
Sul petto o sulle piume: uccelli veri,
Un di toccati e amanti nelle palme
Che lo stupore all'aria gettò di scatto
Per vederli felici all'infinito.
E così parla da un abisso un'arpa, in noi fatta
Di vene che mia madre udì battere a sera
Per poi dormire sulla fronte o crescere e, in silenzio,
Farsi cielo negli occhi appena il sonno
Fu la breve tomba per noi lungo la notte.
E tutto questo è flusso, un turbinio di note:
Dono agli orecchi di conchiglie messe
Per sempre a spegnersi in un luogo
Non ritrovato più. Ma torna il mare
E con il mare un'onda che fu volo di vela,
Vista e non vista in fondo all'orizzonte:
Un mare desto in ali di colombe, sospese
Di là dal cupo rombo sulle scogliere.
E così torna in un ricordo il marmo
Ad arco lungo le scalinate fatte con l'affanno
E i passeri negli occhi in essi di già volati.
Torna l'uscio e, in alto, il viso tra le rose
Che il buio a sé spingeva per amore ai trilli
D'un mandolino, amico delle stelle felici.
Era mia madre sola. Udiva il suono,
Udiva in sé la notte e poi la curva
D'una mesta scala di suoni; e così
Bianca tra i capelli udiva, in lontananza,
L'ora scandire
Gli anni di giovinezza;
E s'affidava all'aria come a cercare un vago
Segno d'allegria vissuta.
E in sé partiva, udendo le note amiche
Perché fosse più dolce il suo dolore
Di sposa solitaria.
[...]