Studi » La puzza del denaro
a «FERMENTI», nn. 171/173, 1986
Nel maggio 1984, scoppiò uno dei soliti scandali che deliziano i rotocalchi e loro lettori: la contrastata eredità (intorno ai sei miliardi) dell'ingegner Giovanni Piazzolla, deceduto, settantaquattrenne, in una splendida villa di Rapallo, nel settembre 1982 di collasso cardiocircolatorio. Il suo fedele maggiordomo ne avrebbe scoperto il testamento a proprio favore; un testamento che i fratelli del defunto (Pasquale e Serafina) impugnarono subito come falso, suscitando altresì la riesumazione del cadavere per una perizia tossicologica che accertasse le cause del decesso (favorito dal maggiordomo?).
Un anno circa, certamente, è meno che niente per la Giustizia nazionale; ma è quanto basta per condurre alla tomba un uomo: Pasquale Piazzolla. Era un sedentario professore di filosofia in pensione, residente in Roma, studioso e poeta con il nome di Marino; e si trovò d'un tratto lacerato tra le pratiche per l'eredità, la causa legale conseguente, oscuri timori (o minacce?) che lo spingevano a viaggi con guardie del corpo, controversie con la stessa sorella. Così è finito anche lui come il fratello, il 22 giugno scorso, settantacinquenne, in un ospedale romano. Era nato il 16. aprile 1910 a San Ferdinando di Puglia.
Aveva lavorato e poetato per circa un mezzo secolo. Trasferito a Parigi poco più che ventenne, nel 1931, compone poesie in francese (ristampate nel 1982 sotto il titolo Moi, l'inutile) e segue i corsi di filosofia alla Sorbona. Professore della stessa materia in Italia, al-terna l'esercizio critico con quello poetico, raggiungendo, in quest'ultimo, voci di grande validità come Lettere della sposa demente (1952), 2~ ed. (1975), Gli occhi di Orfeo (1964), Gli anni del silenzio (1972).
Il lievito filosofico, che non cessa mai di operare in un poeta autentico, impone al Piazzolla una sorta di scelta negli anni Sessanta, allor che il tramonto dell'idealismo dà luogo a diverse aperture affini o contrarie, quali l'esistenzialismo e il famismo. Il nostro avverte subito la sostanza verbalistica dell' esistenziàlismo, e pubblica un saggio su Jean-Paul Sartre, intellettuale massificato (1973). L'analisi di quella presunta contro-cultura, che non è altro che una cultura infantile e arrogante, è tanto precisa nella sostanza quanto fluida nella forma. Del famismo, pur non facendo aperta accettazione, Piazzolla assorbe la carica anti-maiuscolara negli aforismi intitolati Detti immemorabili di R.M. Ratti (1966).
Questo R.M. Ratti è un vero spartiacque tra il Piazzolla e il genio. Si veda cosa diventa, nel presunto Ratti, la famosa scelta sartriana, che poi non è che una riscrittura del libero arbitrio: "Libero di decidere, / di fare scelte / tranne, ben inteso, / vitto, alloggio e fottisterio". Il famismo respinge tutto ciò che non ha una sostanza biologica, tanto da definire le sue applicazioni scientifiche come biologia culturale; compresa, dunque, la Ragione come categoria metafisica. Questo privilegio-parafrasi dell'anima fu inaugurato, com'è noto, con il cogito di Cartesio, per sgonfiare il quale basta al Piazzolla un rapidissimo colpo di spillo: "Sono seduto e cogito / Cogito che son seduto".
Altri aforismi e bizzarrie, mai frivolezze, nelle Parabole dell'angelo di cenere, Fermenti (1980), dove la scepsi della Ragione ("Anche la Ragione ha le sue pazzie, come la Pazzia le sue ragioni") conferma il senso del relativo, la condanna delle maiuscole che non indietreggiano neanche innanzi all'assassinio ("Chi uccide in nome di Dio ha ucciso Dio. Chi uccide in nome dell'uomo ha già ucciso l'uomo"), e persino qualche melanconico sorriso sulla vanità esistenziale tallonata dalla morte ("A quest'ora di sera, mi pesa già la cenere che sarò"; "rendo le mani all'aria e stringo il vuoto che sarò"...).
La nuova, raggiunta, saggezza informa la nuova poesia di Marino Piazzolla, che esplode in una raccolta dal titolo non allegro: Il pianeta nero (Roma, ed. Fermenti, 1985, pp. 96). Dell'elegante edizione, arricchita di illustrazioni di Guido Razzi, l'autore ha fatto appena in tempo a vedere la prima copia; ed è stata l'unica consolazione dopo l'infausta eredità. Quest'ultima, probabilmente, sarà ancora un pretesto d'intrattenimento gradevole per alcuni; ma anche, noi, purtroppo, dobbiamo riconoscerle una funzione positiva nella formazione del testamento poetico di Marino, così carico di odio e disprezzo di uomini e cose in tribuna.
La puzza del danaro è appena un inizio della diagnosi dei valori più correnti, né fa mistero dell'esperienza vissuta: "Da quando ho ereditato / io stesso mi sento sterco / Le donne mi annusano / come tanti puenter / mi cercano quando dormo / mi cercano se son sveglio /... / Per preti e filosofi non si deve / nominare invano / ma soltanto incassare"... Non si tratta, beninteso, di mutazioni ideologiche di punto in bianco, sì di quella esasperazione che solo le ferite sulla propria carne possono produrre. Dante avrà sempre detestato ruffiani baratti e simile lordura; ma quel disprezzo non avrebbe mai assunto la virulenza (morale ed espressiva nello stesso tempo) della Commedia se non fosse stato acceso dall'esilio e dalla persecuzione.
Chi non condanna la dittatura (anche se la sedicente democrazia è un espediente come un altro di Potere)? Ma la lirica dal titolo-ritornello per ben trenta strofe (Lo ha deciso il capo) martella con estro e virulenza estranei ad ogni confronto "Da oggi sono in vendita ovunque / lingue di poeti / cervelli di filosofi e scienziati / trippe di politici / cuori di generali / Lo ha deciso il capo / ... / Giacché non ci sono più pesci / gli uomini più tristi / abiteranno il mare / per farsi pescare / Lo ha deciso il capo"... Lirica sorella, la Legge marziale, dalle volute più complesse ma meno folgoranti, dove "il capo", grazie alla dedica a Lech Walesa, riflette particolari più concreti: "Adesso ch'è generale / è tutto marziale. Ha orecchie d'acciaio. / Afferma senza battere ciglio" ecc.
Altra coppia affine ma dal crescendo inverso, Terrore sui continenti e Un po' d'Apocalisse, dove la prima lirica sembra un preludio sinfoniale della seconda (e non per nulla ultima del libro).
La catastrofe nucleare non è certo un argomento peregrino, ma le immagini il crescendo l'annientamento universale della poesia di Marino sgomentano per la loro nitidezza e intensità. Dall'attacco ("Suonerà il sole le sue trombe di fuoco / sull'uscio del cielo raccolte / getteranno fiamme le nubi / gli alberi bruceranno come torce") al martirio dei corpi ("Avremo gli occhi di pace / le mani abbrustolite / e le teste scuoiate / le dita arse / ... / Gli scheletri danzeranno con noi / con i denti bucati / dall'urlo degli atomi all'idrogeno"...) ed altre, non ricordiamo di aver trovato una composizione altrettanto possente in nessuno dei novecentisti più celebrati, compreso Eugenio Montale.
Non oseremmo fare questo nome, oltremodo celebrato, se non lo avessimo trovato nella Premessa al Pianeta nero, firmata da un critico severissimo: Gino Raya. Il quale si è sempre rifiutato di scrivere prefazioni a contemporanei, dove l'elogio è pressoché d'obbligo; soltanto per Il pianeta nero egli ha dettato cinque pagine di calda, lucida adesione, che hanno rivelato il Piazzolla a se stesso (come riconosceva il poeta nel suo letto di morte), e resteranno un punto di partenza insostituibile per la critica futura.