Con Giuseppe Guglielmi dentro la spietata epica del boom di Massimo Raffaeli
da "Il Manifesto", 06/07/2007
Domani sera a Fiano Romano un omaggio a uno fra gli autori più originali del nostro dopoguerra. Dopo avere stilato nei versi del suo unico libro, «Panglosse», una lucida didascalia della reificazione che segnò gli anni Sessanta, Guglielmi si dedicò alla traduzione riproponendo in un italiano mai letto prima, sussultante e esclamativo, le opere di Céline
È davvero una buona notizia che ben due manifestazioni dell'estate letteraria ricordino la figura di Giuseppe Guglielmi (nato a Bari nel 1923 e scomparso a Bologna nel '95), uno dei poeti più originali del nostro dopoguerra. Leggendarie erano la ritrosia e l'umbratile gelosia della propria libertà che di rado lo allontanavano dal portico di Santo Stefano, casa sua, a Bologna, tanto quanto appariva in lui vitale, e salutare nelle sue inversioni improvvise, la vocazione alla battuta mordace e ai paradossi irridenti (come quello che nel marzo del '77, quando la città sembrava in stato preinsurrezionale, ci arrivò addosso alla stregua di una doccia gelata: «Attenzione, il capitalismo ha i secoli contati»).
Rigoroso con se stesso fino ad essere spietato, impaziente di esiti che sentiva sempre perfettibili, in una lotta con la parola che negli ultimi anni rischiosamente presagiva la resa al silenzio, Guglielmi lascia un solo libro dal titolo che peraltro non potrebbe essere più suo, Panglosse.Blandimentis oramentis coeteris meretriciis (Feltrinelli, 1967), poi ristampato con integrazioni in Ipsometrie. Le stasi del sublime (Savelli, 1980) dove si legge una netta e inderogabile dichiarazione di poetica: «Poesia si estrae dai testi, si riscopre, si inventa, è il luogo per sempre emarginato della ragione. ... Al sistema canonico delle forme letterarie, alla loro funzione tra araldica e legittimatrice, si oppongono qui da una parte le figure della "inopia semantica" e dall'altra le intermittenze di una "folle cantica". Se il sublime è impredicabile, il linguaggio chiede ancora di essere forzato al limite delle sue prestazioni».
Il primo nucleo di Panglosse era uscito una decina d'anni avanti con una insegna frontale, essere & non avere (Editrice Magenta, 1955), e all'interno della collana «Oggetto e simbolo», la stessa in cui apparve Laborintus di Edoardo Sanguineti, che viene ritenuta il palinsesto della futura neoavanguardia. Firmava la collana Luciano Anceschi, maestro e compagno di via di Guglielmi insieme con pochissimi altri, fra cui l'incisore Luciano De Vita, il critico Ezio Raimondi (col quale avrebbe firmato la versione degli Scritti sull'arte di Baudelaire, per Einaudi nel 1981) e Roberto Roversi, che alla sua figura avrebbe dedicato una densa monografia di «Rendiconti» (n.45, 1999, Edizioni Pendragon) in cui, alla maniera di un ritratto psicologico e insieme di un rilievo precisamente critico, viene detto: «Una ironia agra, ma mescolata a una tenerezza di fondo (una ansimante tenerezza scontrosa) sempre calcata con la mano quasi a comprimerla o piuttosto a difenderla».
Nel clima e anzi nei paraggi topografici dove intanto prendono corpo due riviste quali «Officina» e l'anceschiana «Verri», Guglielmi in effetti esordisce da battitore libero: la sua è una poesia petrosa, scandita e ribattuta sugli endecasillabi («di una precisione fabbrile difficilmente eguagliabile», dirà Fausto Curi) con effetti di mordace espressionismo ovvero di satira corrucciata; l'io non vi scompare affatto ma ritorna a soprassalti (spezzato, strinato) dentro gli scenari deformi di un sopravvivere borghese, segnato da risibili velleità, pretese ipocrite e stolte decorazioni culturali.
È l'io che non si lascia spegnere proprio perché ha il compito esclusivo di testimoniare la sua postdatata vanità, la sua ambigua superfluità; così infatti, ad apertura di pagina, in Hopla wir leben: «Intenti eslege in opere d'inchiostro/ con dentro in cuore lacrime e rovine/ ma inchiodato sul petto oh non soffriamo/ sì lietamente vivi noi viviamo/ ...».
La leggenda della mancata inclusione di Guglielmi nella antologia dei Novissimi ('61) a cura di Alfredo Giuliani e la sporadica partecipazione, da parte sua, alla successiva attività del Gruppo 63 forse si spiegano anche col rifiuto di aderire a una poetica che programma la riduzione o la cancellazione dell'io proprio nel momento in cui esso gli rimanda - nella condizione dello spasmo cognitivo e di un'estrema controversia - le ultime e mai confessate verità.
Ciò spiega altrettanto, già all'interno di Panglosse, la stesura di un poemetto in tre tempi, La coscienza infelice, che apre all'epica il codice lirico attingendo, per complessità e qualità, un vertice della neoavanguardia. Non un semplice catalogo dell'alienazione, come allora era persino di moda, ma una didascalia drammatica o appunto un'epica della circostante reificazione negli anni del cosiddetto boom economico: «la resurrezione della carne dicevo/ ecco la chiave: il mio sogno marxista visto da Freud/ con duemila anni di storia cristiana di coscienza/ mistica nel didietro/ da una regione dell'anima insepolta che non nega più».
Quella del poeta Guglielmi sarà invece, d'ora in avanti, una negazione radicale o meglio un inseguire l'espressione fino alla sua zona franca in un'acustica ormai perfettamente insonorizzata, come attestano i versi del congedo, Décuplages I e II. Fatto sta che gli ultimi vent'anni li dedica soltanto al lavoro di traduzione, su cui si sofferma in una rara intervista del 1989: «Ritengo che le traduzioni da Céline, o quelle da Queneau, siano interessanti in quanto proseguono il mio discorso poetico e mi consentono di tornare a far uso della scrittura.... Per il resto le traduzioni mi fanno tutte orrore, si fa tanta fatica, c'è del sangue dentro. Ma tradurre per me è riempire i vuoti, per vivere, per non suicidarmi, per fare qualcosa, per scrivere la storia della mia non esistenza».
Aveva cominciato con testi di Nathalie Sarraute, una scelta del poeta barocco e feroce ugonotto Agrippa d'Aubigné, insieme con un'antologia dei Provenzali (Cappelli, 1962) e aveva proseguito, lui l' allievo prediletto di Vittorio Lugli negli anni d'università, col doppiaggio di testi della grande saggistica francese, da Morin a Deleuze, da Focillon a Starobinski fino a Baudelaire critico d'arte e poeta comico (Amoenitates belgicae, Scheiwiller, 1987); ma decisivo, insieme con Raymond Queneau, è soprattutto l'incontro con Louis-Ferdinand Céline, dalla versione di Nord (1975), all'intera Trilogia del Nord (Einaudi-Gallimard, 1994) e da ultimo, per la prima volta pubblicato in singolo, Rigodon (Einaudi, «Letture», pp.271, euro 17).
Céline diviene col tempo quasi un suo doppio, interrogato dalla parte muta e fonda della pulsione linguistica, la celebre petite musique, e magistralmente riproposto in un italiano mai letto prima, basso senza essere dialettale, sussultante e esclamativo, con una forza ritmica che in tutto commemora l'intensità della pagina originale.
Ciò nonostante, alla fine Giuseppe Guglielmi amava dissimularsi nelle vesti di un semplice doppiatore, preferiva celare l'inventiva stilistica nel più umile lavoro del grammatico. Infatti ripeteva sempre, con un'altra delle sue leggendarie avances, che le cattive azioni linguistiche sono cattive azioni.