Opere » Pollock e il caos
da la Gazzetta del Sud, 16 Maggio 1958
Quasi tutti gli artisti della nostra epoca, quando non sono stati addirittura mediocri, hanno per lo meno covato una sorta di rabbia distruttiva, un furore da scomporre fino all'ossessione l'arte per ritrovare il fondo di se «tessi e le ragioni di una originalità assoluta, che è poi tutta la vita segreta del mondo moderno riflessa nella coscienza di chi vive e crea. In pittura, soprattutto, abbiamo avuto il succedersi di ricerche su ricerche: l'ambizione di arricchire la spiritualità dell'uomo di emozioni nuove, di avventure straordinarie, che a volte ci hanno stupito per la loro interna potenza inventiva, a volte, invece, ci hanno lasciati dubbiosi sull'autenticità della ricerca stessa e del valore in sé delle opere. Non sempre, da queste scuole, quasi tutte condizionate da un profondo senso critico e da una interna dialettica che ha avuto e ha tuttora la finalità di liberare l'uomo da ogni incrostazione conformistica, è venuta fuori quella luce che si cercava con tanto accanimento polemico e creativo. Illuminato dalla più moderna cultura plastica d'Europa, ma sospinto dal suo demone a scavare nell'arte con la furia di un ossesso, è stato senza alcun dubbio Jakson Pollock.
Per questo artista americano, elementare e complesso nella sua inquietudine, la pittura si aggroviglia per poi bruciare nel suo elemento originario: la materia. Pollock, infatti, non vede che il colore, non sente che lo squillo dei colori; vive e si sviluppa nel ritmo del colore, ma per rimanervi impigliato, compiaciuto fino all'ossessione dalle infinite possibilità che ha la materia di esistere e di disfarsi in un caos abbagliante. Vedendo i quadri di Pollock si è tentati di pensare a un barbaro che, non potendo attingere vigore da una ordinata e costruttiva vita spirituale, si immerge completamente in una sorda e sotterranea nevrosi per poi liberarsi dall'incubo puntando violentemente sull'originario grumo cromatico che assorte tempo e spazio in una sorta di giuoco, ma di un gioco che è serio per la sua elementare, quasi onirica invenzione d'un universo senza nessi e architettura.
La sua pittura si avviluppa a flutti e può continuare all'infinito, racchiudendo in sé, nella sciva fitta di macchie e linee abbandonate sulla tela, le zone d'ombra di un uomo che si vuoi sentire esistere nella materia, nei labirinti della parte colorata: in quell'elemento innocente e discontinuo che è l'arbitrio della materia, umanizzata soltanto dalla drammaticità con cui il pittore crede nel destino della pittura abbandonata alla sua casuale libertà. Ma questa libertà non si risolve in forme concluse, non si solleva sul piano della creazione, ma tende invece a una sorta di ritmo vegetale, tende a liberare il pittore dal suo delirio, immergendolo nelle infinite possibilità ritmiche e plastiche dei colori, intesi ormai come realtà assolute. Nei quadri di Pollock poi anche il ritmo non è espressione di un mondo, figurativo o astratto che sia, ma si presenta quasi carnoso, gonfio di ossessionante mania cromatica, fino a perdersi in se stesso, privo di una autentica vibrazione ideativa: un ritmo destinato a sfasciarsi senza mai suggerirci una profonda emozione.
Si è parlato di esperienza dell'inconscio, di automatismo, di messaggio capace di rivoluzionare la pittura moderna. Pollock, in realtà, non rivoluziona affatto; forse riconduce la pittura ad uno dei suoi elementi; e in questo solo elemento egli si sbizzarrisce colla furia patetica di un invasato. Con l'automatismo applicato anche alla pittura non si fa più arte: si lascia soltanto il documento umano, cioè quella fantastica e remota paura che sente l'uomo di avventurarsi nell'universo dello spirito, il quale poi si risolve sempre; e per destino rivoluziona, in senso dialettico e reale, anche l'arte: bruciando l'elemento procreatore, cioè l'impulso.
Pollock tratta il colore con la passione del primitivo e la immaginazione libera del fanciullo, riportandolo verso un caos che suggestiona e, con abbagli e ghirigori, accenna a delle forme che li par li stupiscono, come certe frasi o paesaggi ci stupiscono quando siamo sotto l'influsso del delirio o del sogno, ma che in realtà vivono una loro vita effimera, accennando con violenza indimenticabile al mondo, senza mai afferrarlo, senza chiuderlo, senza nemmeno deformarlo, I quadri di Pollock non rivelano il temperamento di un autentico pittore, ma documentane, in modo unico e a volte sorprendente, quel che la pittura diventa quando l'uomo non la solleva sul piano dell'arte.
Pollock ha toccato il fondo dell'esistenza pittorico, si è ridotto a consumare bizzarramente il colore, moltipllcandolo vanamente all'infinito, fino a fargli assumere le sembianze di un mostro, che incute rispetto, sì, ma che dà anche quella certa angoscia, la quale è certamente dovuta alla mancanza di una vera presenza spirituale. L'entusiasmo che sprigiona la pittura di Pollock è dovuto in parte al fatto che la sensibilità dei moderni si esalta immediatamente proprio davanti alla tentazione di un linguaggio puro, ma che in sostanza è materia pura. Pollock è l'antitesi di Leonardo. Mentre l'artista italiano arrivava a distruggere la materia e quindi tutti gli altri elementi in certe penombre dell'espressione spirituale dell'uomo e della natura, Pollock distrugge ogni parvenza di vita spirituale, cioè umana e quindi artistica, nel colore puro abbandonato alle sue infinite possibilità. Al posto dell'opera d'arte, della pittura, insomma, viene fuori il caos: tinte, timbri e colori che vegetano privi di vita, come ramificazioni di una flora mostruosa che si nutre di squallidi ricami senza nessi, d'intrecci che rivelano la serietà di un allucinato, che è disceso, per rimanervi prigioniero, nel suggestivo e squillante mondo del delirio, dove i colori crescono su se stessi, si moltiplicano come radici o cime, prolificando una visione, che non vibra, non scatta, non testimonia la presenza dell'uomo e dell'artista, ma la passione violenta e profonda di un uomo che tragicamente cede davanti alla pittura senza mai risolverla in opera d'arte. E la grandezza di Pollock più che nei suoi quadri, che sono in fondo delle affascinanti e capricciose decorazioni, simili molto a quelle che casualmente vengono fuori dalla natura, sta nel tentativo ch'egli fece d'impastare l'informe cromatico con se stesso, stalattite gonfio e spoglio a un tempo d'ogni possibilità di soluzione artistica.
Egli fu un ingenuo, un appassionato che, scosso dalla serietà delle ricerche più moderne, volle abbandonarsi a un giuoco senza sbocchi, ad uno stile senza chiusure, a una invenzione senza rilievo, a un ritmo senza armonia, a una vita senza la varietà unitaria, a una frenesia pittorica ingigantita sì, ma senza la terribilità di un autentico mito. La sua pittura quindi suggestiona per il furore titanico della sola passione pittorica che giuoca con se stessa, aiutata minimamente dall'artista, il quale guarda vivere la materia come una tentacolare incrostazione, grumosa fragranza di un mondo che va verso l'inorganico; sorta di flora da delirio, senza essere l'autentico mondo di un artista capace di sollevare la pittura, con potenza espressiva e conclusiva, (Picasso per esempio) verso le infinite possibilità dell'invenzione umana.
Marino Piazzolla