Opere » Poeti di ieri e di oggi: Eugenio Montale
da "LA FIERA LETTERARIA", 12/6/1960
Non è assolutamente possibile, nel limitato spazio di un articolo, dar rilievo e dimensione a una poesia così complessa e segreta come quella di Eugenio Montale. Mancheremmo di modestia se tentassimo di concretare in un breve saggio le qualità, gli umori, le scoperte, le inquietudini e le oscurità spontanee e volute di un poeta che in questa prima metà di secolo, ha, con pudore e controllatissima saggezza, dato alla storia della poesia italiana un suono tutto moderno e significati complessi, cadenze indimenticabili corrispondenti allo spirito non soltanto tipico del nostro popolo, ma comune alla sensibilità moderna europea. Ed è impossibile anche precisare, con riferimenti alla tradizione lirica italiana ed europea, quale sia in realtà quella sostanza, lirica ed umana, da cui Montale ha preso l'avvio per incidere con spirito decisamente libero ed artisticamente cauto il suo mondo; quei ritmi arditi e sepolti che dànno alla sua poesia chiaroscuri e barlumi improvvisi, come fossero lampi di un dramma interiore destinato a incenerirsi in un potente diario esistenziale.
Nella lirica di questo poeta, che ha scavato in se stesso una materia ribollente e apparentemente alogica, c'è in realtà tutta la storia di un uomo che a un'epoca di crisi è legato soltanto da una costante delusione e da una profonda esigenza di solitudine illuminata.
Dagli "Ossi di seppia" alla "Bufera" l'itinerario lirico si presenta oscillante fra la passione di un vasto discorso cosmico, ove lo spirito può naufragare e ritrovarsi dolente a misurare l'asprezza, la nudità della condizione umana e naturale, e la intima segreta esigenza di chiudere in ritmi densi una vicenda che è della memoria e dell'amore sconfitto, ma sollevata sul piano del mito. Montale colloca i suoi ideali di uomo moderno, e in esilio, su quel cielo platonico che dovrà affascinarlo, fargli udire quella musica muta che è della cenere; fargli scoprire il sommesso lamento di Petrarca che agostinianamente proietta la sua complessa passione in un canto raccolto fino al pudore e alla luce. Poi verrà la scoperta di quel pessimismo senza sistema in cui brucia, solenne e fitta di antichi singhiozzi, la lirica del Leopardi. Del Bergson, neoplotiniano sottile e pieno d'ombre, assimilerà la violenza libertaria e creatrice dell'intuizione, bruciata questa volta in un paesaggio d'immagini dolenti e misteriose.
Si è parlato di Pascoli, di certa reminiscenza Gozzaniana che avrebbe accentuato in lui l'intimismo della solitudine e la sfiducia nella vita. Lo si è voluto apparentare a Sbarbaro per quel comune destino che collocò innanzi allo sgomento dei due poeti liguri lo stesso paesaggio pieno di sorprese oggettive e di frantumata desolazione. Ma in realtà, Montale si nutre di ben altra sapienza poetica e di una filologia che è consona al suo mondo di uomo, scettico su tutto ciò che appartiene alla storia, ma che resta fedele, in modo nuovo, a una sorta di confessione che, pur avendo tutti i crismi del pudore e della di-screzione, si dilata in un diario potente, sconcertante per quei trapassi lirici che sono il sottofondo di ogni sua poesia. Montale crede nella bellezza che è propria della poesia contemporanea: una poesia priva di adorazioni teologiche e di incantesimi; una poesia che nasce dalla sconfitta e dalla coscienza che l'uomo ha di considerarsi come il rifugio più serio in cui si recuperano tutte le sue libertà. Il poeta moderno può insegnare senza messaggi; creare senza alcuna gioia; scavare in sé la parola per ripetersela nel più casto silenzio; credere nelle immagini, le quali salutano dal loro abisso ogni creatura che ha scoperto il male del mondo e si distanzia da Dio per cercarlo forse in modo più tragico.
Coi fantasmi di Montale, perciò, si viaggia a ritroso; forse in un tempo che è della morte, ma soprattutto è dentro la vita come squallore e accidente: un tempo che si dissecca nel silenzio delle cose, e pur vibra nel male che fu rumore aspro in fondo alla natura. E il rumore sommesso scandisce gli eventi, si fa stortura in un paesaggio che nasce da una luce improvvisa e subito svanisce in un tempo ancora più buio, dove scende a far musica, a comporre suoni con cadenze umane, sì che la vita oscilla tra una desolazione pietrificata e uno sgomento metafisico colto come unico destino.
La poesia sembra consistere in un abbaglio che è dello spazio deserto e delle forze contratte negli oggetti; e dove sembra che il terrore devasti ogni esistenza, là subito sorge un senso di elegia, arida per il suo essere dentro ciò che soffre per vanificarsi dentro la memoria che inventa se stessa e si fa piena di simboli segreti.
In questo poeta la vocazione si dibatte dunque tra "frasi stancate" e umori improvvisi che gettano sul paesaggio il sentimento della precarietà; quella luce distante in cui le cose sono e non sono, tanto è l'antico sconforto dell'uomo; il quale altro non ha davanti a sé che il modo di narrare, come in un cupo monologo, l'interna avventura di ciò che vive. Ma il fondo misterioso di questa poesia, aspra soltanto nella sua densa e plastica apparenza, è forse da ricercarsi in un vigile e lievitante senso di distacco dalla storia: quella solitudine che è senza dubbio la dimensione più delicata nel dar rilievo a tutta l'esistenza, e soprattutto a scorgere nel mondo i segni di una sottostante distruzione e ineffabile ricreazione cosmica.
Montale, infatti, affronta gli eventi e gli elementi come se dovesse collocarsi in essi e ricordarli a se stesso, seguirli e commentarli con invenzioni che sono poi la ragione stessa di ciò che accade. Allora il paesaggio si dilata e soffre nei suoi particolari; cerca esso stesso le parole dure, quelle in cui si fa più vivo il silenzio e il dolore; l'asprezza o quella dimessa cadenza che rispecchia l'interno divenire di una realtà totale.
La vita e la morte sono in fondo un unico male, che del poeta fanno un uomo quasi offeso, ma collocato al centro di emozioni fugaci; un universo palpitante negli angoli più impensati, dove la parola serve a denunciare l'amore e il delitto; il murmure del mare che racconta o l'ala della farfalla che, una sera, sarà "per sempre" / con le cose che chiudono in un giro / sicuro come il giorno, e la memoria / in sé le cresce, sole vive d'una / vita che dispari sotterra: insieme I coi volti familiari che oggi sperde / non più il sonno ma un'altra noia; accanto / ai muri antichi, ai lidi, alla tartana / che imbarcava / tronchi di pino a riva ad ogni mese. / Al segno del torrente che discende / ancora al mare e la sua via si scava".
È questo, forse, uno dei frammenti più alti della poesia Montaliana; e della lirica europea moderna. Lo stile è di una tale purezza e potenza che trattiene il pathos di una musica che è luce e insieme dolcissima epigrafe da mettere sulla vita, che è poi l'antico dolore della terra. Ma in Montale il pessimismo si fa quasi sempre deserto, si apparenta subito allo strazio in sordina delle cose, coesiste col silenzio di tanta materia, abbandonata a un male che la corrode, per poi farsi voce umana, cadenza dimessa e quasi discontinua nella coscienza di chi medita su ogni metamorfosi.
Ecco la ragione della apparente oscurità di Montale. Se ogni esistenza è tensione interna che presto si disseccherà in una catena di fenomeni desolati e desolanti, il male della vita non può che presentarsi in modo oscuro e sotterraneo: collocato in uno spazio che brucia all'interno della realtà. E Montale è sempre preoccupato di indicare le cose perché le fa essere e le fa svanire. E su questo svanire, la memoria non può che allargare il suo orizzonte fino alla morte. Poesia dunque oscura, ma concreta: logica per quel tanto di verità misteriosa che è nella natura e nello spirito dell'uomo, ma potentemente plastica come è plastica sempre l'esistenza.
In questo universo di amari distacchi e di terribili vanificazioni, l'amore è l'addio, gli affetti e gli animali, i fiori e gli uccelli, il mare e il vento s'intrecciano e scontano quasi una identica fine, ora facendosi lamento, ora presentandosi come apparizioni di una vita remota. Ma è il remoto di un tempo allucinante: ricordo misterioso di paesaggi e di volti amati e dissolti nel nulla. E davanti a questo nulla, che è poi la matrice del male conficcato in ogni esistenza, appare per l'uomo la noia.
Sulla terra, l'attesa di finire si fa noia; e in questa noia l'uomo dispera e incontra se stesso fino a scoprirsi poeta. Ed è proprio nella noia che si riflette il nulla che ci attende prima e poi: tutto ciò che accade è prescritto da una dissolta fatalità che accomuna e livella tutti mentre l'uomo acquista coscienza della sua discretissima solitudine. Ed alla noia subentra la mania di delirare per salvarsi da un muto naufragio. Se l'esistenza è destinata a vanificarsi, se essa è autodistruzione, resta la poesia a registrare le percezioni ditale strazio: di questo strappo del cosmo per ritornare al caos.
In Montale, perciò, l'idea del caos assume la violenza della verità e della realtà. Scoprire perciò la vita è alta funzione poetica; ma la scoperta è immagine che piange e subito si dissecca: è un lampo che brucia il mondo fenomenico. Con Montale, la sostanza della lirica italiana, che è sostanza di amore e di disperazione, si fa canto dissonante in virtù delle cose che in esso sorgono ad evocare il dolore sordo della vita. La lingua cessa di essere suono illustre, e musica di solo sentimento per diventare una lingua fatta di "lettere fruste", perché arido e triste è il paesaggio evocato o scolpito in tutta la sua plastica oggettività. E questa una lezione estrema o quasi conclusiva, dove l'alta melanconia di un Petrarca o di un Leopardi scende dal piedistallo e si fa lamento sobrio, cadenza quotidiana intorno a una realtà che brulica e si vanifica. E anche quando la evocazione della morte si fa serena, essa sale comunque da quell'abisso buio che è la coscienza moderna. Una coscienza non più eroica, non più sostenuta dalla fede, ma illuminata appena da un virile scetticismo, che dà alle cose, e soprattutto alla poesia, una misura potente, formalmente sofferta ma lontana.
In questa lontananza fatta di suoni aspri e di brusii in sordina, fa luce una lirica ricca di suggestione e di nuova sofferenza.
La poesia di Montale, come la lirica dei nostri poeti più amati, ci aiuta, ancora una volta, a scoprire la vita e ad avere almeno un'ultima fede nella bellezza, anche se questa bellezza sale dal pianto di tante cose nate e subito svanite.