Studi » Intervista: da «QUINTA GENERAZIONE», nn. 39/40, 1977 Numero dedicato alla poesia degli anni Cinquanta
L'esperienza poetica da me compiuta a Roma negli anni Cinquanta si ricollega alle mie esperienze precedenti, entro un arco di tempo che va dagli anni Trenta (attività poetica del periodo parigino, esperienza surrealista) agli anni Quaranta (insegnamento nei licei, in Italia, esperienza bellica, poi attività politica) fino al mio trasferimento a Roma, nel 1946.
In quel periodo andai maturando varie poetiche in cui si riflettevano motivi e suggestioni dell'esperienza di poesia da me compiuta in Francia. Si traffava di esperimenti ricollegabili all'avanguardia poetica degli anni Venti e degli anni Trenta: imagismo, vorticismo, dadaismo e surrealismo. Queste poesie si trovano raccolte, in parte, nel mio volume Gli anni del silenzio (che corrispondono al periodo 1928-1952). Nel 1950 ha per me inizio un'esperienza poetica nuova: sentii allora la necessità di rivivere la lirica greca come fase essenziale per ritrovare, o meglio, recuperare, la primigenia innocenza umana.
Nel 1951 pubblicai Elegie Doriche, opera premiata a Taormina, e nella quale la critica - a cominciare dai giudici del Premio (fra cui Luigi Russo, Diego Valeri e Massimo Bontem pelli) - avverti il positivo riflusso alla naturalezza ed intensità degli antichi poeti greci, pur nella mediazione della lirica europea contemporanea. Interpretazioni che richiamavano il giudizio che André Gide aveva espresso, nel 1938, su Pèrsite e Melasia, lavoro da me pubblicato sulla rivista "Arts et ldées": "La poesia di questo giovane poeta italiano, gustata leggendo il mito di "Pèrsite e Melasia", mi è sembrata inventata ed espressa con quella patetica innocenza con cui i lirici greci sentivano i loro bellissimi canti".
Durante gli anni Cinquanta iniziai la mia attività di critico su "La Fiera Letteraria", il cui direttore, Vincenzo Cardarelli, mi affidò la critica di poesia raccomandandomi - cosa che mi dispiacque - di "occuparmi di poeti mediocri e in modo mediocre". Gli risposi che mi sarei occupato di poeti degni ditale nome e che avrei scritto le mie recensioni ne modo più confacente alla mia preparazione culturale e al mio stile. Le prime due opere da me recensite furono un libro di Sandro Penna ed uno di Adriano Grande.
In quel periodo divenni collaboratore di diverse riviste: da "Iniziative" a "Il Trifoglio", da "Alfabeto" a "Nosside". Quando si accese la polemica fra neorealisti ed ermetici, non parteggiai nè per gli uni nè per gli altri. Miravo ad una poesia meditata e limpida, nel contenuto e nella forma, senza distaccarmi dal sottofondo della mia esperienza di poeta magicista compiuta a Parigi col poeta provenzale René Méjean.
Nel 1953 pubblicai a Roma, per le Edizioni del Canzoniere la raccolta di liriche Esilio sull'Himalaya. Tale pubblicazione nacque dal mio incontro col poeta Elio Filippo Accrocca, direttore, col poeta Cesare Vivaldi, di quella collana. L'Esilio vinse il premio nazionale di poesia Chianciano, ex-aequo col poeta Luigi Bartolini.
Della nuova fase della mia poesia negli anni Cinquanta si occupò più volte il poeta e critico Alberto Frattini (cfr. il suo volume La giovane poesia italiana, Pisa, Nistri-Lischi, 1964, pp. 187-195): della rivista "Poesia Nuova", da lui fondata, nel 1955, con Pietro Calandra, e condi retta, fui uno dei primi collaboratori: vi pubblicai, sul numero di gennaio-febbraio (1955) quattro liriche, Infanzia, A una libellula, Lo ricorderemo cantando, Preghiera agli amici.
Del periodo in cui si realizzarono le iniziative del "Canzoniere" e di "Poesia Nuova" si stanno ora rivisitando aspetti e problemi del rinnovamento della poesia a Roma, nella prospettiva di quel gruppoantigruppo per il quale si è anche fatto riferimento all'ipotesi, avanzata agli inizi degli anni Cinquanta, da Giorgio Petrocchi, di una nuova scuola romana di poesia.
Se quella scuola poi, in effetti, non si formò, credo che ciò debba principalmente attribuirsi al fatto che mqìti di noi che a Roma, in quel tempo, si incontrarono ed operarono, avevano ben ferma l'idea che la buona poesia non può nascere da raggruppamenti di scriffori magari fondati su ardite e ambiziose ragioni, sia d'ordine estetico e stilistico, sia, più latamente, culturali e sociopolitiche. Programmi e poetiche di gruppo non possono avere, se mai, che limitata incidenza sugli orientamenti del gusto e del costume letterario.