Studi » Emerico Giachery: Una sposa «demente» discendente di Ofelia
Nel corso dei lavori della sessione di San Ferdinando di Puglia sull'opera di Marino Piazzolla è intervenuto il noto studioso e critico, oltre che scrittore, Emerico Giachery, il quale ha curato l'introduzione della ristampa di un'opera fondamentale di Piazzolla quale Lettere della sposa demente.
Il poemetto è stato pubblicato dalla casa editrice Fermenti a distanza di quarantacinque anni dalla prima edizione del J952 e a proposito di esso scrive Giachery: "Alla ricezione di un 'opera come questa si addice un ascolto, un aperto accoglimento scevro da pre-supposizioni di carattere 'microstoricistico', che inetta 'fuoori circuito' o 'tra parentesi' l'opera con un 'attenzione e disponibilità non troppo dissimili da quelle richieste dalla fenomenologia filosofica".
L'attenzione verso la necessità di una ermeneutica letteraria che ricerchi soprattutto il senso di un testo è stato lo spunto per un 'analisi particolarmente suggestiva della poesia di Marino Piazzolla e più precipuamente delle Lettere della sposa demente. In questo senso Giachery ha sottolineato la rilevanza di poter onorare un poeta nella sua città natale e 1 'emozione che è sempre luce rischiarante di una modalità di 'fare letteratura" (e critica naturalmente) costruita nel 'ottica dell'incontro e dello scambio. A tale scopo è necessario che l'interprete letterario entri in sintonia con il testo ed entrare in sintonia con Lettere della sposa demente implica un estensione semantica che procede oltre il testo stesso e che si configura nel suo stesso ritmo musicale.
Scrive ancora Giachery nell'introduzione al poemetto di Piazzolla:
"Entriamo in una sorta di 'tempo aperto ' e insieme di 'tempo lungo', quasi prolungabile ad libitum, per definire il quale si è quasi costretti a ricorrere, per possibili, e comunque mai precise e rigide, affinità e omologie, a esempi musicali".
Nella fratellanza che l'ermeneutica letteraria ha con la musica e nella ricerca di un senso che continuamente si trascende si ritrova il significato dell'opera poetica di Marino Piazzolla.
"Quando l'emozione è integrale, e le parole pescano nel fondo", confessava Mario Luzi negli iniziali anni Sessanta a Jean Amrouche che lo interpellava sui grandi temi della creazione poetica, "allora succede che la poesia parte dallo zero e termina sullo zero come se nessun'altra l'avesse mai preceduta e nessun'altra potesse conseguirne". Presa di coscienza, dunque, a parte auctoris, di una condizione di pienezza e unicità, che può trovare riscontro, in casi privilegiati e felici, anche a parte lectoris. Uno dei casi privilegiati potrebbe essere rappresentato proprio da questo poemetto di Piazzolla, salutato da autorevoli letterati emunctae naris come un piccolo gioiello, quasi un sorprendente capolavoro.
Appariva, il poemetto, non molti anni dopo la tremenda, radicale frattura del cataclisma bellico, ancora a ridosso del vistoso crinale della metà del secolo con i bilanci d'obbligo anche letterari, tra energiche tensioni, non di rado esibite per zelo, di totale rinnovamento. Non senza lasciare profonde tracce, il neorealismo stava declinando. La "giovane poesia" si disponeva a presentarsi nell'antologia Quarta generazione, due anni dopo Linea lombarda, esattamente coeva delle Lettere della sposa demente. Era alle porte la feconda stagione di "Officina". Anche un colto e appassionato intellettuale del Sud, corregionale di Piazzolla, Vittorio Bodini, avrebbe presto dato vita a una rivista: "Esperienza poetica". Proprio nello stesso volger di tempo, ma con premesse molto diverse da quanto allora si andava facendo in quel campo, anzi su posizioni antitetiche pur nella civile apertura dialogica, avrebbe visto la luce, per opera soprattutto di Carlo Betocchi e Mario Luzi, "La Chimera", con i suoi quindici densi fascicoli pubblicati tra il '54 e il '55. L'intento della rivista, secondo le parole di Carlo Bo che la rievocava a trent' anni di distanza, era "opporre alla marea indistinta delle nuove regole politiche, ideologiche o sociologiche il limite sacro della libertà e purezza". Qualcosa di più, forse, che un tentativo di restaurazione nostalgica - come vollero far credere i pervicaci militanti ed epigoni del realismo impegnato - di una stagione trascorsa per sempre e scomunicata senza appello dall' intellighenzia imperante e spesso intollerante. Una rivendicazione, semmai, della non caduca idea della natura e vocazione orfica coeterna alla poesia. A questo punto non siamo forse troppo lontani dal "messaggio secondo" contenuto nelle Lettere della sposa demente, anche se nessun concreto riscontro ci consente di collegare all' area "fiorentina" che nutri "La Chimera" e alla schiera dei cosiddetti ermetici uno scrittore come Piazzolla, tutto proteso oltr'Alpe e ben poco partecipe al clima culturale italiano e alle polemiche che lo animavano in quegli anni.
"Come se nessun' altra poesia l'avesse mai preceduta e nessun'altra potesse conseguirne", per riprendere le parole di Luzi riportate all' inizio, questa non breve narrazione lirico-elegiaca di Piazzolla sembra emergere, anadiomene, da un pelago remoto e solitario, quasi isola abitata dalla pura immaginazione poetica che basta a se stessa, che per esistere - se vogliamo utilizzare un' immagine di Borges a proposito della musica - non ha bisogno del mondo, se non, nella fattispecie, come repertorio di meri referenti verbali tratti da sentimenti, oggetti, segni temporali e cosmici che al mondo pur sempre appartengono. Senza porselo come scopo e senza alcuna intenzione polemica dell'autore, ma del tutto implicitamente, come, appunto, "messaggio secondo", il poemetto finisce di fatto per rivendicare la libertà assoluta della poesia, il suo diritto di franchigia nei confronti di meccanicistici "rispecchiamenti" tanto di moda in quegli anni e di quel "contingente" dal quale il tempo-spazio poetico tende a differenziarsi trascendendolo, e col quale è certo connesso, ma per lo più attraverso innumerevoli, indirette, sfuggenti mediazioni. Il fascino dell' apparente inattualità che scaturisce da esperienze spirituali profonde e autentiche e riesce à volte a trasmutarsi in più sottile e durevole attualità, è intrinseco all'essenza di questo poemetto e non separabile dal godimento estetico che può offrire.
Piani e modi di lettura di un testo sono, ovviamente, molteplici, e bisogna guardarsi da pregiudiziali esclusioni. Tuttavia può accadere che dai testi stessi pervenga una sorta di intimo appello a privilegiare una via tra le altre, una sorta di complice ammicco, un' offerta e richiesta di congenialità.
Alla ricezione di un' opera come questa si addice un ascolto, un aperto accoglimento scevro da pre-supposizioni di carattere "microstoricistico", che metta "fuori circuito" o "tra parentesi" l'opera con un' attenzione e disponibilità non troppo dissimili da quelle richieste della fenomenologia filosofica. Lasciamola dunque parlare, memori del fatto che il rapporto tra opera letteraria, artistica, musicale e ricettore-interprete è rapporto tra soggetto e soggetto, tra due "persone" immerse in un essere di linguaggio.
La già constata "insularità" di questo poemetto, che tra l'altro ha come immaginario teatro, significativamente, proprio un'isola, il senso di remoto e di solitudine del suo porgersi e rivelarsi come testo e della stessa vicenda che in esso viene immaginata ed evocata non è cornice soltanto, bensì componente integrante, essenziale. E troverà conferma nel lessico poetico del testo.
In ongi caso sappiamo sin troppo bene che la pianta della poesia non nasce da deserti, e anzi accestisce in terreni di cultura, e sappiamo anche quanto saturo di cultura moderna fosse un poeta come Piazzolla. Questa volta la pianta sembra scaturire da spore venute da lontano, portate dal vento. Ma poi le radi-ci che sviluppa affondano nella cultura europea. Si potrebbe considerare, per esempio, la sposa demente che è centro del poemetto come una discendente lontana di Ofelia, della goethiana Gretchen, un'Ofelia senza irruzioni inconsce di crudezze da trivio, una Gretchen senza delitto e rimorso, sulla linea di una medesima tradizione archetipa. Si potrebbe - ma, credo, con utilità molto scarsa - evocare la poetica mallarmeana dell'assenza in un testo in cui dall'assenza e nell'assenza nasce ogni poesia. Più proficuo può risultare il seguire le radici sino agli strati profondi della civiltà letteraria romanza.
Un minimo di attenzione rivela subito una caratteristica fondamentale, una struttura espressiva portante: il continuo ritorno di parole e immagini chiave, quasi pietre o mattoni con cui vien costruito l'edificio poematico. E ci accorgiamo che il modello ideale, anche se remoto, del tutto rinnovato, ripensato e trasceso nel poemetto, è la sestina. Sì, proprio la sestina ideata dal "miglior fabbro del parlar materno" Arnaut Daniel, accolta da Dante "petroso", portata a raffinata perfezione da Petrarca, ripresa anche in tempi moderni, per esempio nel Recitativo di Palinuro cha appartiene al momento più 'fabrile" di Ungaretti: La Terra Promessa. Difficile e suggestivo metro, "con quel suo oscillamento dentro un cerchio fisso di identiche parole-rima", come rileva Adolfo Jenni in un lontano studio sopra La sestina lirica. In Piazzolla le parole ricorrenti non sono in rima, anche se spesso in fine di verso, richiamandosi a distanza anche notevole da nuclei strofici spesso lontani tra loro. Davvero singolare che la parola-rima più tipica della sestina di Arnaut Daniel, cambra, ossia "camera", quasi simbolo della "chiusura" del suo trobar clus e della stessa forma-sestina, trovi riscontro in stanza, stanze, di rilevante frequenza in Piazzolla.
Appena un momento (e non senza utilità per il discorso che si va facendo) può valer la pena di soffermarsi sulle osservazioni, proprio sulla sestina, di Mario Fubini, nel troppo dimenticato volume Metrica e poesia, che rappresenta, a mio avviso, uno dei più maturi frutti della stilistica idealistica in Italia. In Arnaut c'è "un pensiero insistente, del cuore di lui congiunto a quello della donna come un'unghia alla carne, il motivo ossessionante della cambra". Dante, "fin dal principio, porta la poesia all'aperto, passa dalla cambra ai dolci colli, al verde della natura":
Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra
son giunto, lasso, ed al bianchir de' colli
quando si perde lo color ne l'erba; (..)
Le sue parole in rima sono ombra-colli-erba-verde-pietradonna. Le prime tre, specialmente la prima, hanno notevole frequenza tra le parole-chiave del poemetto di Piazzolla. In Petrarca la sestina può quasi venire assunta a emblema della sua arte lirica elaborata in continue variazioni su temi costanti: in essa il poeta trova non tanto l'occasione di "una prova di bravura momentanea, ma una forma della sua poesia"; ne assapora il senso di "totalità". E in lui questo metro, più che nei poeti che lo precedono, rappresenta "una fuga e un ritorno sui medesimi temi": definizione quanto mai adatta anche alle Lettere della sposa demente. Se poi esaminiamo le parole in rima di due memorabili sestine petrarchesche: terra-sole-giorno-stelle-selva-alba e onde-luna-notte-boschipiaggia-sera, notiamo che non poche tra esse si ritroveranno come parole-chiave nel poemetto di Piazzolla, e rappresentano segni di un mondo di durata, come fuori della storia, quasi edenico.
Chi ne avesse voglia potrebbe mettere insieme una lista di frequenza delle parole dominanti nel poemetto, una specie di parziale concordanza. Ma qui basterà enumerarne alcune: tessere di un mosaico, o piuttoso elementi, proprio in senso chimico, e a volte quasi metafisiche essenze e 'figure", di una cosmologia lirica. Si possono raggruppare in vari modi, tutti approssimativi e insoddisfacenti. Eccone uno, per esempio, non certo più soddisfacente ed esatto di altri: una via come un'altra per toccare punti fondamentali di un "microcosmo esistenziale", se così è lecito dire, e per entrare nella logica del suo ritmo e del suo sviluppo. Anzitutto, parole che si potrebbero definire "supertematiche" della condizione esistenziale: vita, amore, madre, tempo (con tutta la costellazione di anni, giorni, sere, al plurale e al singolare). Esistenziali in una dimensione più circoscritta: nome (che è spesso un non-nome), volto (con la variante frequente viso), cuore, sogno, occhi, voce, eco, silenzio, da accostare a muto. Termini, nel senso più lato, cosmologici e meteorici: sole, luna, stella, mare, vento, buio, notte, cielo, aria, ombra, luce, nebbia, neve. Topologici: stanza, con finestre, e vetri (molto frequenti e con varie connotazioni simboliche di aperture visive sull'esterno, diaframmi, luoghi di riflessi affini agli specchi), collina con la variante colli, giardino e orto, erba, albero, rami, foglie, quercia, rose. Frequente, e sintomatico: velo. Presenze animali: colombe e farfalle, connesse al volo. Presenti anche musica e danza, suonare e cantare. Colore di gran lunga dominante e fortemente sintomatico: il bianco, qui polisemico.
Nessun dubbio sul fatto che non poche di queste parole-chiave potrebbero afferire a settori diversi da quelli in cui sono state accolte, in un modo che non si potrebbe immaginare più empirico, e i settori stessi potrebbero essere diversi da quelli qui suggeriti. Ciò avviene, comunque, non soltanto per l'imprecisione e opinabilità, d'altronde inevitabile, della ripartizione del tutto provvisoria, ma anche per la polivalenza dei segni, dal cui insieme si può ricavare una sorta di "cosmogramma indicativo del poemetto. Non si dimentichi che è un cosmogramma dinamico, in continuo movimento. I segni entrano in relazioni sempre nuove, di affinità, spesso di opposizione (per esempio notte-giorno, buio-luce, voce-silenzio, e via dicendo), di alternanza (che è spesso quella delle stagioni e delle fasi del giomo). Questo complaso gioco in continuo (benché sempre sommesso e discreto) movimento è sorgente e motore strntturale del poemetto; ne costituisce l'anima e il segreto; si lega al suo senso profondo.
Constatazione fondamentale, questa, che ci riconduce a una compresenza di continuità e movimento, di "eterno ritorno " e di perenne fluire. (L'Essere stesso, del resto, come sappiamo specie dopo l'analisi esistenziale e ontologica di Heidegger, si lega al Tempo con legame inscindibile).
A questo punto, ecco che il remoto modello della sestina, chiusa in una cosmicità circolare che si potrebbe definire - nel senso più lato possibile - tolemaica, viene del tutto trasceso, si scioglie ed apre in un diffuso articolarsi. Entriamo in una sorta di "tempo aperto" e insieme di "tempo lungo" 'quasi prolungabile ad libitum, per definire il quale si è quasi costretti a ricorrere, per possibili, e comunque mai precise e rigide, affinità e omologie, a esempi musicali. Dalla contrappuntistica forma del ricercare, nata nelle intavolature rinascimentali (e rivisitata da Bacb e poi da musicisti del primo Novecento) si approda, facendo tesoro della wagneriana "melodia infinita" 'a un dilatato fluire di riprese quasi senza limite; (allo stesso modo, forse, il gran fiume dell'Essere immerso nel Tempo scorre verso una foce terribilmente misteriosa). Esempi significativi: lo struggente (e sin troppo noto) Adagietto, caro a Luchino Visconti, della Quinta sinfonia di Gustav Mabler; e, negli ultimi anni di Richard Strauss, il Concerto per oboe, e soprattutto le Metamorfosi per orchestra, così prossime alla strnttura di aperte, implicitamente inconcluse, riprese alle quali si voleva far rilerimento, e inoltre tutt'altro che lontane dalla stagione d'Europa da cui hanno preso vita le Lettere della sposa demente. Non si sottolinea mai abbastanza l'arbitrio dell' accostare esperienze e forme artistiche intrinsecamente diverse, come in questo caso musica e poesia, ma è evidente che il confronto che precede è meramente allusivo, indicativo.
Il microcosmo di segni in cui si esprime e svolge la trasognata favola del poemetto è dunque - s'è constatato - animato da un modo aperto e diffuso. Appare quasi come un dolce labirinto, nel quale il lettore è invitato a inoltrarsi con sintonico abbandono. Non è difficile supporre che possa rimanere catturato, affascinato.
Emerico Giachery