Studi » Michele Dell'Aquila: Dove va la poesia in Puglia negli anni '80
da "Quinta Generazione", dispensa mensile di poesia Anno XVI Marzo-Aprile 1988 n. 165/166
Il decennio sta per chiudersi. Anno più, anno
meno. E poi, per far colma la misura, v'è sempre il vezzo di
prendere le mosse dalla decina che precede, i terribili anni '70. Se ne
cava allora perfino qualcuno in più. Ma i decenni, come i secoli
e gli anni, si sa, sono misure di comodo. Altra cosa la scansione del
tempo, storico ed individuale, che non conosce calende, anche se tutti
s'affannano poi a farvelo rientrare. Cosa ha prodotto e dove va,
dunque, la poesia in Puglia in questi nostri anni '80, dopo la diaspora
delle formazioni e dei gruppi attivi nel decennio precedente, dopo la
scomparsa di tanti e la dissoluzione di altri, in questa epoca di
postindustriale, in cui le mode e i dejà vu si rincorrono e si
distruggono nel giro di una stagione, e meno, e lo stesso
«edonismo raegania-no» che sembrava ispirarla nell'onda
neocapistalista appare già appartenere ad un passato
irrimediabilmente già passato? Si può provare, come
richiede ogni giro di boa, a tracciare, se non un bilancio, che si
lascerà ai posteri per loro occupazione, almeno la mappa e le
linee di svolgimento e le tematiche d'affezione, senza pretesa di
completezza, mettendo in conto la scontentezza se non
l'animosità dei tanti per dimenticanza o per reticenza (chi
saprà mai?) rimasti impigliati nei tasti della macchina per
scrivere?
E sarà lecito finalmente, accostandoci a materia contemporanea,
vivente intorno a noi, in anni di in formalizzazione della cultura e di
omologazione del prodotto (e del sentimento), far a meno di ripetere la
stucchevole precisazione che a parlare di poesia in Puglia non si vuoi
sottintendere assolutamente una poesia «pugliese»,
né definirne una connotazione particolare, ma solo accennare ad
un referente territoriale, come sede di residenza e di vita; insomma un
Parnaso «pugliese», almeno in assoluto, per mera
identificazione geografica? Almeno in assoluto: che quanto era
storiograficamente corretto in secoli e decenni più remoti di
separatezza regionale o di difficoltoso collegamento con i centri vivi
della cultura e della esperienza poetica, si dimostra improponibile e
forzato, oltre che lontano dal vero, in tempi di rapida informazione e
di vertiginosa circolazione delle esperienze e delle idee. Per profonde
che siano le sorgenti e non confondibili gli umori segreti della terra,
oggi il poeta può sentire più suo altro nutrimento, e si
muove in più larga dimensione e sintonia. Rischia di essere, e
molte volte appare, nazionalmente o intemazionalmente omologato, come
è destino di ogni fenomeno del nostro tempo che tende a superare
i confini propri, e insegue l'onda di propagazione dei mass-media. Per
fortuna vi sono delle eccezioni. La poesia si salva con gli scarti e le
trasgressioni. Ma la considerazione, in linea di principio, sembra
sostenere le eccezioni. L'incalzare delle generazioni in poesia avviene
senza tregua, crudele e incontrastabile, come nella vita, forse
più che nella vita.
Non è un caso che proprio tra gli ultimi anni '60 e gl'inizi
degli anni '70 siano venute a mancare figure grandi quali Fallacara,
Comi, Bodini. E poi ancora, successivamente, Carrieri, Pagano,
Francavilla, Piazzolla, per non dire di altri, quasi a significare che
un'altra stagione si preparava, che non si poteva più fingere
che nulla fosse accaduto, né attardarsi, per le mutate vicende
politico-sociali, ma anche formali (la spinta impetuosa dello
sperimentalismo '63), su di un meridionalismo vecchia maniera, tra il
grido e l'elegia; né su di un postermetismo appena intriso di
colore di Puglia e di risciacquature sociali. La marsigliese contadina
l'aveva cantata Scotellaro, assieme a molte altre cose meno
appariscenti ma forse più alte nei suoi versi. La
«condizione» l'aveva cantata Bodini, anche questi assieme a
molte altre cose di estroso surrealismo e di straordinaria
«invenzione». Non lasciavano molto altro da dire, e lo
spazio, troppo affollato, diventava irrespirabile. Le avanguardie ed i
gruppi di sperimentazione e di rottura dopo il '63, e più negli
anni '70, compirono i loro Sturm undDrang contro tutto questo, contro
la poesia imbalsamata, contro l'imperituro classicismo degli epigoni e
il narcisismo delle forme. Si raggruppavano sotto sigle che
dichiaravano a tutta voce il loro programma innovativo: il gruppo
barese di «Interventi culturali», il salentino
«Centro Gramma», il collettivo «Artegene-tica»,
il gruppo dei poeti di Barletta, quello garganico dei «Quaderni
dal Sud».
Naturalmente in poesia gli accostamenti sono sempre rischiosi: tra
l'altro, talora sono invocati come salvacondotto, altra volta ripudiati
come marchio sgradito. Rimane il fatto che i raggruppamenti, anche nei
casi (rari) in cui danno luogo a poetiche comuni, dichiarate e
sottoscritte, non producono mai una identica poesia. La quale è
per sua natura individuale ed originale; e dunque, per usare la nota
boutade, se è vero che esistono le religioni e le
comunità dei fedeli, è altrettanto vero che in paradiso
si va da soli, non certo per gruppi.
D'altro canto si deve riconoscere - ed ora a distanza di tempo appare
più chiaro nelle vicende dei singoli - che questi poeti
apparivano avviati ad una maturità di scrittura e di progetto
che nel ventaglio assai ampio delle proposte conferma le diramate e
qualche volta dissimili provenienze e motivazioni iniziali.
Esse, infatti, potevano apparire inizialmente appiattite in un comune
intento di rifiuto del modulo capitalistico/consumistico, colto proprio
nel suo nodo letterariamente più appariscente:
sentimento/retorica; quanto dire vita/parola. Da cui, tanto più
in anni di contestazione totale e di rivoluzione permanente, una comune
inclinazione alla poesia gridata, il ricorso frequente alla metafora
apocalittica, la rappresentazione indignata dell'osceno corpo sociale,
delle sue frenesie di ricchezza, di successo, di produzione,
d'inquinamento; la contrapposizione di un'umanità ferita a
quella mistificazione di umanità soddisfatta che si voleva far
passare come vera per la tranquillità delle coscienze.
Ricordiamo ancora certe contestazioni di premi letterari e di poesia,
la proposta rumorosa di politiche culturali alternative, l'iniziativa
della «poesia al muro», con relative liriche portate in
giro su cartelloni o scritte su manifesti e murales, con invito ad un
coinvolgimento «attivo» dei lettori. Ma ancor più:
il rifiuto e lo scherno per le lamentazioni diciamo cosi
«nobili» di essa: solitudine, malinconie, spasimi d'amore e
di lontananze, frustrazioni e drammi individuali, dolore e pena del
vivere: insomma i sottoprodotti di un romanticismo divenuto mediocre,
passato attraverso Cozzano e i crepuscolari, nobilitatosi solo in
apparenza nella cifra «alta» di ermetici e postermetici,
legittimato nella coscienza popolare dalla rabbia neorealista e da un
meridionalismo che pretendeva, con alcuni poeti, di combattere le sue
battaglie con gli endecasillabi.
Quella «quinta generazione», anche nei suoi gruppi
pugliesi, rifiutava proprio questo: la compromissione con l'individuale
e con la lamentazione storica. Altra violenza, ben più profonda,
era la sua cupa tragedia: sua e di tutti: uno stravolgimento di amichi
vitali equilibri; l'uomo violentato non solo nella sua dignità
(che ad alcuni può suonare retorica), ma nel suo essere uomo:
violentato, fatto a brani, martellato, affogato, strappategli le
viscere da quel gran Moloch infernale del capitalismo, dal
drago/fabbrica, dal vitello d'oro, dalle mitologie
industrial/consumistiche corruttrici di ogni forma elementare e
qualità della vita.
Di qui la proposta poetica, che già cominciava a diversificare
le scritture: recupero dell'arcaico come condizione iniziale edenica,
grido/denuncia della violenza presente, fuga in avanti di progettazione
utopico/alternativa; uno sperimentalismo, questo sì, comune a
tutti come segno esso stesso emblematicamente di scrittura alternativa,
di rottura e di confusione dell'esistente corrotto, e rifiuto radicale
dei suoi stessi simboli e convenzioni di linguaggio, anche grafiche. Li
ricordiamo tutti, in quegli anni Settanta, i nostri poeti: Di Ciaula,
Bellino, Angiuli, Bizzarro, Giancane, Nigro, Rotunno, Nicassio, Romano,
Perdonò, Zaffarano, e su posizioni non lontane, Piemontese,
Antini, Mancino, Valerio, Vendola, Poivani, Urrasio, Custodero.
E ricordiamo certe posizioni e certi versi e i titoli delle loro
raccolte, che erano una bandiera: Uomo zero; Alzo zero; Condizione
uomo; Vedere e non vedere; Ritrovarsi uomo; Rispondere con i pugni;
Antymathemata, Dal fondo dei dolmen, fino ai Chiodi e rose di Di
Ciaula, che è del '72, e dunque è tra quelli che aprono
la serie.
Poi gli anni sono passati, e con gli anni le esperienze di ognuno. Il
momento di «Interventi culturali» è già quasi
un fatto memoriale, una sorta di Sturm und Drang da richiamare con
orgoglio, come una campagna d'altri tempi. E certo le strade di molti
si sono fatte distinte. Qualcuno è scomparso o cova versi in
silenzio. Altri è cresciuto, passato a nuove esperienze di
lavoro e di vita. Altri ancora, sotto mutate forme, non ha lasciato
cadere quel «rasoio» che Scotellaro diceva essere la poesia
(si riferiva a quella di Bodini). Altri ancora vive con l'umore tetro e
sarcastico di chi vede e non può nulla contro errore e follia.
I ripiegamenti di Antini, gli eroici furori di Mancino, certo ritorno
ad un'arcadia sensuale e svagata di Di Ciaula, sono emblematici modi di
reazione alla caduta delle speranze di «cambiare il mondo».
Si rileggano certi testi: Gli arcadimenti, Il sangue di Hebert, Dopo la
scienza, L'odore della pioggia, e via dicendo: se ne troverà il
segno dichiarato. Mancino, in Dopo la scienza, sembra prenderne atto
con amara disperazione: «Accanirsi oggi non vale ad
inchiodare/progetti, cuore bendato da nemici. / Al vecchio saggio non
resta spazio né teatro / per la recita di salmi e
melodie». Dopo la scienza è dell'82. Altri s'era
già arreso
Ma cosa fanno e cosa hanno fatto in questo decennio quegli stessi poeti
e quanti nomi nuovi sono venuti alla luce e quanti dei
«vecchi» hanno mostrato durata nella giovinezza persistente
dell'ispirazione?
Qui la mappa si fa di necessità sfrangiata e sarà obbligo
seguire sentieri individuali o approssimativi raggruppamenti. Si
accennava agli scomparsi e del vuoto lasciato dal loro silenzio. Ma se
la morte ha conferito a Fallacara, a Comi, a Bodini la statura solenne
di classici, dei nostri classici contemporanei, il silenzio di
Carrieri, di Piazzolla, di Pagano, di Francavilla, pur così
attivi nella loro ultima stagione, chiede si ritorni sulla loro opera e
si pongano le pietre salde di fondamento e di una valutazione che
soprattutto per Piazzolla e Pagano appare sfocata, inferiore ai meriti
che sono non pochi su diversi versanti.
E non si vorrà trascurare quella loro esperienza e dimensione
europea, soprattutto del simbolismo francese che s'avverte nell'opera,
accanto a quella della più alta tradizione nazionale, da
Petrarca al maggior petrarchismo a Leopardi ed al leopardi-smo
novecentesco, riscontrabile questa nell'ultimo Piazzolla (Sugli occhi e
per sempre, 1979; L'amata non c'è più, 1981), con uno
slargo della trama lirica in forme di poema sinfonico di intrecciate
sinestesie e di alta cifra espressiva. Carrieri ci aveva consegnato il
modulo di una nostra poesia avventurosa e straziata, ironica, densa di
grumi, di forte sapore e di epigrammatiche brevità. Ma
nonostante il silenzio sopraggiunto, il suo nome sembra resistere
all'attesa di un ritornante interesse.
Anche la Marniti, sul versante della poesia colta, veniva svolgendo con
continuità i suoi temi preferiti, di elaborata fattura e di
sensibile capacità interpretativa delle complesse misture tra
paesaggio storico e paesaggio intcriore (Il cerchio e la parola, 1979;
La ballata del mare, 1984); mentre è da salutare il ritorno alla
poesia in questi anni recentissimi di De Jaco (Stazioni di posta, 1986)
e di Spagnoletti. Fornaro, da un intimismo colto, ricco di umori
segreti (Boscimano, 1979), sembra inclinare ora verso un commosso
stupore contemplativo del gran miracolo della vita (Sole verde, 1984).
Serricchio proprio negli anni tra i Settanta ed Ottanta ha prodotto le
sue cose migliori, da Le stele daunie, 1978, ad Arco Boccolicchio,
1982, alle altre cose che ha in preparazione, delle quali viene
presentando sparsi frammenti, in una forma alta e compatta,
letterariamente sostenuta, attraversata da straziate malinconie
riflessive sugli esiti della vita, sul perenne di essa consegnata nei
miti, tutti dolorosi oltre l'ingannevole apparenza, in cui si condensa
il destino dell'uomo e delle cose, la fuga delle stagioni, il
trasmutarsi inarrestabile e fatale dell'essere. Quando si sente il
bisogno di una silloge, che raccolga e scarti, ed offra quanto ci sta a
cuore, prima che altri lo faccia e forse senza rispetto, è segno
che si è entrati nella stagione riflessiva della vita e si ha
bisogno di fare bilanci per offrire. La qual cosa non toglie (gli
esempi sono tanti, ed autorevoli), che, fatto il libro, se ne
aggiungano appendici, qualche volta di eccezionale interesse.
Così non son pochi quelli che stan pensando alla silloge. E lo
ha fatto anche la Raimondi (Elsa) recentemente (La procellaria, 1986),
ed altri sta ordinando le carte. Fiore non credo, ed anzi per riprese
isolate ritorna alla poesia, con quella sua forma di poesia/satura di
latina maniera, con intrecci di generi e tematiche diverse, storia,
geografia, mito, condizione meridionale, strazio e passione
dell'intellettuale/letterato/poeta che si arrovella sui nodi di una
questione meridionale sentita non solo in termini di economia. Il
male è dentro di noi è del '75; i versi da Strasburgo
di Anonimo pugliese sono del '79. Ma vi sono segni più
inequivocabili di un suo ritorno alla giovinezza poetica: certe cose
ancora inedite che fa leggere agli amici e sembrano preludere ad una
nuova stagione d'amore e di passioni.
Balistreri, che per una sua prolungata residenza in Puglia avevamo
assimilato agli altri poeti nostrani, è nuovamente emigrato, ma
non senza aver dato segnali inequivocabili di una inclinazione (non
soltanto sua) della musa postmoderna alle amorose passioni.
Anche Accroca, lungamente pugliese di residenza, ora tornato alla sua
Roma di sempre, ha fatto avere in libreria altre raccolte della sua
poesia asciutta e dolorosa ( Videogrammi della prolunga, 1984;
Contromano, 1987). Così Campione che in questi anni è
tornato alla poesia con una raccolta (Le ragioni della storia, 1983);
e Bernardini, memore di tante esperienze, raccoglie vecchi e nuovi
versi di rilevata fattura (I segni del diluvio, 1981).
De Padova, un pugliese emigrato ad Alessandria, tiene viva la sua vena
di poeta dalle sottili trame d'intelligenza e di sentimento ( Versi
e riversi, il saccheggiato olivo, 1983; Amar cataro, 1984; Salut et fra
temile, 1986; Donjon, 1986) in moduli mutuati ad un
intellettualismo rigoroso e radicale, nella suggestione di un antico
trobar clus che mostra di voler riaprire la mai obsoleta questione
dello sperimentalismo formale e della distruzione del già fatto.
I poeti in dialetto (altra cosa dall'infinità dei dialettali che
si lascia ad altro discorso) hanno mantenuto fede alla loro ricerca
espressiva alternativa, ed almeno i più grandi non hanno volto
le spalle a quell'originale linguaggio così funzionale alle
tematiche d'ispirazione. Cosi il salentino De Donno (Ventuno
sonetti, 1977; Mumenti e ttrumenti, 1986; La guerra guerra, 1987);
così il brindisino (d'elezione) Gatti ('Nguna vite, 1984).
Ma
anche Nigro, Angiuli, Custodero e Curci ritornano al dialetto
per adesione o sperimentazione (Gioco d'oca, 1979; June la lune,
1979; Pane y pemmedaure, 1979; A tiembe perse, 1983).
Su altro versante troviamo il fine e sensuale intarsio ellenistico
di Michele Coco, maturato nelle interpretazioni di atmosfere
preziosamente panneggiate di certa pittura moderna e
nell'adesione/interpretazione della vitalità degli epigrammatici
antichi, dell'Antologia palatina, ed ora di Paolo Silenziario.
A San Marco in Lamis, negli anni Settanta sede di un vivace
gruppo di poesia e di attività letteraria (Motta, D'Amaro, Sia-
ni, etc.) operano ancora i primi due, sebbene con intenti diver-
si, ed almeno il primo con iniziative prevalentemente editoriali
e di organizzazione della cultura («Quaderni dal Sud»).
II lucerino Urrasio, dopo le raccolte degli anni Settanta, ci offre
delle Lettere dall'Inferno, 1981 e Il segmento
dell'esistenza, 1983, in uno sviluppo delle sue tematiche
ecologiche ed umane sull'alienazione contemporanea. Così, con
teso impegno, La Penna e Locurcio. Jacovino, lucano, ma residente a
Tarante, offre esempi di fiducia nella parola e di resistenza dell'uomo
sociale (Queste parole, questo muro, 1980). Trisolino (La
cravatta di Stolypin, 1988) ripropone in forme rinnovate temi della
polemica sociale e della condizione meridionale. La poesia di
tradizione offrirebbe lunghi elenchi, in questa sede improponibili.
Basterà dire che molti fanno versi; che la tradizione, che
è anche gusto, cultura, raffinatezza, rimane forte e fortemente
sentita; e che non son pochi quelli che mostrano di sapervisi riferire
senza appiattimenti, con qualche originalità e forza espressiva,
com'è nel caso di D'Andrea, di Rella, di Ferretti, della
Pensato, della Raimondi (Elsa, ma anche Lia), della Folliero, di
Schino, dello scomparso Panareo, di Manuali, di Italia, di Celiberti (Di
bolina, 1984; Crepuscoli d'amore, 1985), di Bruni (Via
Carmelitani, 1988), di Silvestri (Il canto galla, 1985), che
all'attività di illustratore ed editore di antichità
pugliesi, accosta quella di sensibile e colto poeta; del garganico
Tusiani, che nelle università degli Stati Uniti da il meglio
della sua vena umanistica nelle traduzioni in inglese dei nostri grandi
classici.
Si sarebbe tentati di dire che però ormai la frontiera è
più innanzi. Poi, a pensar bene, l'affermazione scappata di
penna vi rientra, o almeno s'inclina a correggerla: era più
innanzi, alla fine di quegli anni Settanta. Ma oggi? Da che parte spira
il vento e verso dove portano le Muse ed Apollo? Non sarà invece
tutto lo sperimentalismo post '63, e la furia distruttiva e
ristrut-turatrice degli anni Settanta, una bolla d'aria, un territorio
cintato, una parentesi notevole, ma pur sempre conclusa di una vicenda
che già mostra di voler tornare alla elegia, al canto, al lu-dus
giocoso e straziato, in una parola alla letteratura? Ma forse le cose
stanno altrimenti, e più pacificamente, anche se più
terribilmente. In arte, e nella poesia, è ben difficile creare e
distruggere. Intendo dalle fondamenta. Avviene a grandi intervalli:
Petrarca, Leopardi. Ma anch'essi avevano dietro, e si son trascinati
appresso, poesia trobadorica, stilnovo ed arcadia. Più frequente
il caso di trasformazioni lente, continue, in cui il vecchio affiora o
riaffiora nel nuovo e le «rivoluzioni», anche se più
appariscenti, annegano nel gran mare della tradizione che tutto ingloba
e di tutto s'accresce. Insomma v'è una ripresa in questi anni
della poesia di sentimento e di bello stile, anche se nei nuovi versi
del poeta si sente che tutto non è passato invano, e lo
sperimentalismo e la dissacrazione hanno lasciato il segno.
Dei poeti della quinta generazione alcuni tacciono, forse lasciati
dalla marea su spiagge ormai lontane, irraggiungibili; altri mostrano
di sapersi misurare con la storia e, plasmandosi e modificandosi con
essa, hanno cercato nuovi coerenti svolgimenti. Pensiamo ad Angiuli,
alla sua personalissima elaborazione postsperimentale tutta puntata
sull'intelligenza e l'ironia, sul dominio e sul gioco della parola, da I
campi di alopecia, del '79 a In nome del re, dell'82, Amar
clus, 1984, fino alle ultime cose ancora sparse che attendono la
raccolta in volume. Pensiamo a Nigro, che dallo sperimentalismo verbale
e storico-sentimentale di alcune raccolte (Antymathemata, del
1978; Giocodoca, del 1981; La metafisica come scienza,
del 1984), è passato ad altro impegno di drammaturgo e di
narratore, svolgendo peraltro in forme diverse una vocazione a
ripensare e ad esprimere in toni di mitica epopea popolare un fondo di
cultura e di storia meridionale di straziata intensità. Mancino,
un altro assimilato alla Puglia per la sua ormai ventennale residenza,
sembra riassumere nel suo itinerario i mutamenti e le maturazioni di
molti: dallo sperimentalismo contestativo di Alle radici dei gesti,
1971, di Per struttura s'intende, 1973 e La bella
scienza, 1974, agli eroici furori de Il sangue di Hebert, 1979,
al disincanto amaro e disperato di Dopo la scienza, 1982, alla
risorgente vena elegiaca e poematica del recentissimo Dichiarazioni
silenzio e giorni, 1987, in cui la poesia del paesaggio marchigiano
e delle città d'Europa, quasi un altro da sé, appena
accennato, come un alibi, rivela subito una imprevedibile piena
sentimentale, un bisogno di adesione alle forme della vita e della
memoria (evidente nelle frequenti e scoperte citazioni letterarie), ed
un ritorno al canto che segnano (sembra) un epilogo quasi generazionale.
Anche Francavilla, in modo certamente diverso, percorre itine-rari che
portano dall'impegno (nel suo caso politico, alcune sezioni de Le terre
della sete) alle zone più segrete del privato e
dell'autobiografia lirica dei sentimenti e delle sensazioni (altre
sezioni della stessa raccolta, e poi Il suicidio di Osman).
Curci si mantiene nell'alveo dell'onda e ne seconda la spinta, con
testi di persistente sperimentalismo (Inside, 1984; L'imperfezione,
1986), ma anche con iniziative (la rivista «Il bosco delle
noci») che del postindustriale sembrano mutuare eleganza di
deseign ed impensati circuiti di diffusione oltre che efficientismo
menageriale. Sullo sperimentalismo insiste Colafelice (Endofasie,
1984). Romano ci offre una raccolta (Alografie, 1988), con
versi antichi e nuovi che mostrano svolgimenti e rinnovata misura.
Carella, dalla Ciociaria trapiantato in Puglia, dopo Erbario
scherzoso, 1981, si ripresenta con una nuova raccolta, Le
condizioni, 1985, con più matura forma poetica, una
espressività che intensamente lavora sulla parola, traendone
effetti di una potenzialità anche surreale imprevedibili. Sul
versante di un novecentismo autobiografico teso e riflessivo troviamo
Bianco con l'ultima raccolta (Io l'acqua la luna, 1987). Assai
attivo il gruppo de «La Vallisa», con Giancane e la
Santoliquido, poeti e scrittori essi stessi (del primo, tra i
più recenti, Il tempo rimasto, 1982; Io e la scimmia
pazza, 1984; Marcia di utopia, 1987; della seconda, I
figli della terra, 1981; Decodificazione, 1986; Ofiura,
1987), infaticabili ed attivissimi nelle nuove iniziative
aggreganti dei meeting di poesia: sicché la loro presenza, e
quella dei numerosi poeti del gruppo, dalla Gramegna alla De Leo, alla
Ferrari, a Bellino, Gallina, Bagnato, De Santis, Cardone, alla
Russo-Rossi, alla Sciacovelli, alla Macculi, a Salvemini (Strapiombi
e raggi d'amore, 1986), a Bonsante, Minervini, Bizzarro (che
accanto alla sua attività di attore e di registra continua a far
versi, come mostra la sua recente raccolta, Battuta di soggetto,
1988), Pirro, De Ruvo (e quanti altri?) si esprime oltre che nelle
forme diverse dello sperimentalismo e dell'intimismo, anche in un
allargamento di orizzonte, con frequenti contatti con gruppi attivi
nella poesia contemporanea balcanica, adriatica e mediterranea,
jugoslavi, ungheresi, cecoslovacchi, bulgari, greci, spagnoli,
africani, contribuendo ad un raffronto ed integrazione di esperienze
diverse ma non dissimili. Su questo terreno degli incontri
internazionali su tematiche di poesia lavorano anche il gruppo di
«Poesia In/chiostro» di Conversano organizzato da Goffredo,
ed il «Pensionante de' Saraceni», Assai vivace è
l'attività dei gruppi femminili (ancora le iniziative della
Gramegna e della Santoliquido, che ha poi curato alcuni volumi
miscellanei, Donne e poesia, 1985; Le Tigri e le mimose, 1986;
Trasgressioni di marzo, 1988), poetesse e scrittrici che si
riuniscono in Bari per incontri nazionali con diramate riflessioni
sulla specificità femminile nel fare poesia letteratura e
critica.
Né va passato sotto silenzio il gruppo vivace dei poeti
tarantini, dalla Santoro (Tra radici e fronde, 1986), a Lippo
(autore di una bella antologia, L'aestro dei poeti, 1987, e di
alcune raccolte di liriche, Per versi, 1986; Filo diretto,
1982), che a Taranto pubblica anche un interessante foglio/rivista
monografico, «Porto franco», ad Amodio, dallo
sperimentalismo tagliente ed ironico (Irragionevolmente, Il recinto
di pelle, La ragion d'Orlando etc.), al già citato Jacovino.
Verri (ed anche altri nel Salente, da Augieri di Skarnificazione e
di Solstizio, 1984, a Toma, a Conversano) s'arrocca nel suo
sperimentalismo ostinato (Il pane sotto la neve, 1983; La
Betissa, 1987) ma la sua rivista, «Pensionante dei
Saraceni» (di cui annuncia la fine, e speriamo sia solo
disperazione d'un momento) e le sue edizioni conoscono le finezze del
postmoderno. Una tendenza comune a non pochi altri fogli e fascicoli di
poesia, dal già citato «Bosco delle noci» di Curci
all'ormai chiuso «Caffè Greco» di Verri, a
«L'immaginazione» di Manni, a «Fragile» di
Nigro ed Angiuli, a «Escamotage», nato, con intelligenza e
inventiva, da un gruppo di giovani diretti da Mimmo Crocco, alla
neonata «In/sieme» di Angiuli, Dotoli, Nigro, alle strenne
deliziose di Custodero, che è presente anche con nuove raccolte
poetiche (Risillabario, 1985; Altre parole, 1985), alle
plaquettes preziose di Lovisco e di Ciliento, del gruppo di
«Tarsia» (Avenoso, Bufano, Scola, etc.), della non lontana
Melfi, e di altri.
Una inclinazione, questa del libro, del fascicolo o del foglio di
poesia bene illustrati, in bella carta e accuratissima grafica, che in
qualche modo denuncia non rimossi edonismi intcriori ed un gusto che
dietro il postmoderno lascia intravedere le preziosità di un
altro fin de siècle, quello di De Carolis, della
«Bizantina» e di D'Annunzio. E ritornano gli antichi
sodalizi di poesia, pittura, musica e teatro.
Le antologie si susseguono, segno che la produzione cresce e si sente
bisogno di una cernita: da quella che sembrò riempire un vuoto,
di Accrocca e Ulivi, a quelle di Mancino (Oltre Eboli. La poesia),
non solo pugliese, e di Giancane/Migro (sul repertorio per Regioni
della Forum); a quelle della Pensato, della Folliero, di Nigro, della
«Vallisa», di Dell'Aquila (assai esile, su «La
Battana», fasc. 74). Le collane di poesia non mancano, da
«I testi» di Lacaita, agli «Aggetti» di Schena,
ai poeti de «II capricorno» della Bastogi, alle edizioni
del «Pensionante de' Saraceni», dei «Quaderni del
Sud», alle raffinate plaquettes delle «Edizioni dal
Sud» e dei «Quaderni di Fragile» (Dentico, Tedeschi,
Giannoccaro, etc.), ai «Poeti della Vallisa». Il bisogno di
poesia sembra farsi di massa: un bisogno espressivo, di confessione, di
parola; in qualche caso, in tempi di solitudine e di indistinzione, la
poesia diventa necessità terapeutica. Le giurie dei premi
letterari, numerosi da noi come altrove («Marina di
Palese-Città di Bari»; «Il Gargano» di Vieste;
l'«Adelfia»; l'«Azetinon» di Rutigliano; il
«Bozzini» di Lucera; il «Manina Franca»; il
«Valle dei Trulli»; etc.) sono sommerse di valanghe di
componimenti e di pubblicazioni. È un buon segno? un cattivo
segno? Non vale ergersi a giudici. In Puglia per molto tempo le nuvole
della ispirazione giravano al largo e v'è stata penuria di
poeti. Molti erano disperati e invocavano la pioggia benefica. Poi
è cominciato il diluvio. Forse sarà necessaria l'Arca, ed
un nuovo patto con Apollo. Intanto, da che parte si va? È finito
il postmoderno? È in ripresa la tradizione? E lo
sperimentalismo? E la cupa rabbia degli anni Settanta? Gli oroscopi
sono confusi, i segni molti, e neppure univoci, come è tipico
del gran market in cui viviamo. E sarà necessario davvero
l'aiuto di Apollo: non del dio dei poeti, ma degli indovini. Ma il
nume, distratto, accenna un sorriso, intento a non perder Dafne di
vista: ibis redibis non, con quel che segue. Dunque, si naviga
a vista.
Michele Dell'Aquila