Studi » Gualtiero De Santi: Hudèmata Actàbat a teatro
Testo postumo di Marino Piazzolla, Hudèmata è un'opera che pare come arrivarci da lontananze remote, siderali: in una sorta di grado zero della scrittura la cui materialità - nell'assenza di coordinate di senso che ne rendano immediatamente comprensibile l'intelaiatura versale - si volta pienamente sul lato ritmico-sonoro esaltandosi o per meglio dire decantandosi e chiarendosi sulle tavole del palcoscenico. Non serve aggiungere che un autore esacerbato e in perenne conflitto con il mondo, come fu in vita e nella sua produzione letteraria Marino Piazzolla, sviluppa una scrittura quasi naturalmente teatrale: fatta di invettive, elocuzioni, repliche di segmenti verbali, anatemi, parole scagliate sull'universo: "il poeta è il guastafeste dei tiranni e aiuta l'uomo a sedersi tra le stelle".
Va aggiunto che Hudèmata è formato da parole e da frasi in cui le unità sillabiche si compongono rispondendo al caso, alle associazioni mentali, sciolte in una catena ancestrale e psichica: ancora più conformate a un'idea di poesia raggiunta ed esposta nel suo livello e decorso minimo, in quel momento in cui riemergendo alla luce si esprime con i suoni, i singulti, le inversioni gutturali e vocaliche - questo per non essere in grado né di possedere un linguaggio sensato e neppure un codice riconoscibile. Hudèmata è insomma la poesia ritratta al suo livello primario, brumoso, nel momento in cui sopraggiunge o ci sembra che sopraggiunga dal profondo dell'essere (appartenendo filosoficamente a un mondo di cui un qualunque autore ispirato e poetante è il demone mediatore, esattamente nel modo antico, presocratico). Ma è anche quella uguale poesia costretta dalla selvatichezza contemporanea - dei media, delle menti bruciate e devastate dal consumismo, dell'uccisione della bellezza - a ritrarsi in un antro, da cui continuare a combattere, da dove difendersi riprendendo convulsamente a compitare suoni e lettere nondimeno nella coscienza di aver perduto ogni battaglia.
Lo spettacolo (giacché di questo si è trattato) che la Fondazione Piazzolla ha promosso alla Casa della Cultura a Roma, nella serata di martedì 29 maggio 2007 (un unicum che dovrebbe ripetersi, anzi che si ripeterà, dall'8 al 10 maggio 2008 al Meta Teatro diretto da Pippo Di Marca, sempre a Roma), ha scelto di rubricarsi sotto forma di "reading scenico" delle opere piazzolliane. Una lettura di testi non soltanto in forma scenica (con tre teli che discendendo dall'alto disegnano e scandiscono un proscenio collocato in basso rispetto agli spettatori, dentro un buio che s'accende ad intermittenza sugli interpreti che leggono i versi, Fabio Traversa sulla sinistra e Tiziana Lucattini sul lato opposto, ambedue con davanti un leggio, più Marco Palladini, autore della selezione e dell'allestimento, collocato al centro al di là di un occhiello tondo che ce lo presenta quale effigie mobile).
Un "reading" che in quanto tale sviluppa e conduce il senso dei versi a partire dalla loro dimensione fonica, dalle irradiazioni sovrasegmentali e ritmiche, ma che li anima, che li fa agire mobilmente e semoventemente. Appunto, Hudèmata actàbat (tanto misteriosamente recita il titolo), oppure come invece aggiunge il sottotitolo "suite nera". L'avvio si concerta sulle parole e sulle sillabe che trasmettono unicamente la loro verità sonora; poi, nell'intreccio e nel congiungimento con la musica, le voci si fanno volta a volta profonde, squillanti, lampeggianti, scivolando e sciogliendosi entro i diversi registri fonici - passando anche ai versi in italiano tratti da altre raccolte, dunque esplicitando alcune precise ragioni e inseguendo direzioni non linearmente ma invece nel turbinare delle parole.
Una testualità trafelata e visionaria accumula di fronte agli spettatori convenuti piramidi e grovigli di corpi ed ossa, di sguardi obliqui e luci. Nel reading, i versi discoprono tutta la loro foga ritmica; il grido si alterna col sottovoce, il silenzio col clamore, l'italiano con il francese, "silence à l'unisson" (il giovane Piazzolla fu negli anni Trenta in Francia esordendo allora praticamente nella poesia con l'idioma di Baudelaire). La scansione del ductus si fa canto sconclusionato e aggettante, canzonetta beffarda, refrain che diviene d'incanto filastrocca. "I poeti sono vacche senza latte", "la terra è piena di mostri". Il teatro è l'irrisione, la protesta, la provocazione: è lo sdegno che si disvolge in delirio, l'eccesso che si può mutare in prevaricazione, esagitazione, in aggressività verbale, singulto metallico che lacrima e frigna, che si slabbra e sbraca comiziando e inveendo, ma anche innalzando una cupa, angosciosissima preghiera dalla tenebra in cui è stato relegato.
La poesia possedendo e oltrepassando la persona del poeta - e per estensione quella degli attori e la loro dizione, la loro scrittura orale - deborda tramite la forma drammaturgica per raggiungere e invadere gli spettatori. Anche attraverso Piazzolla, Dioniso si allea con Artaud, ma non s'abbandona e rimette al niente, al vuoto, alle devastazioni, solo perché ingenuamente confida nel messaggio poetico. Il "reading" è operazione aperta, in bilico tra la richiesta di senso e la distruzione, tra lo spirito che palpita e la bestia che urla, tra la ritualità culturale del teatro e la sua vanificazione, quel suo trascendersi in una linea nera, atroce, orrenda. "Anche la ragione ha le sue pazzie", il che non impedisce che il poeta confermi le proprie ragioni interiori: "il sacro mi attrae".
Agivano in quelle serate di un maggio prossimo a svanire, nel teatrino di via San Crisogono a Trastevere, il bravo Fabio Traversa, l'estroso Marco Palladini, la precisa e compiuta Tiziana Lucattini. Per una sera la poesia ha potuto urlare le sue ossessioni, ha gridato contro le nuove possessioni del mondo omologato, piegato, sottratto a se stesso. La figura di Piazzolla - ancora troppo negletta, ancora incompresa, ancora discriminata - ha barbagliato tra il lustro e il brusco della messinscena, meglio di quel recitare sotto forma di vertigine sullo spazio di una pedana con dietro un fondale scenico.
I versi piazzolliani si sono lasciati condurre e concertare in una pratica che era quella dell'agire, del fare, dell'operare, del muoversi e dibattersi convulsamente. "Hudèmata actàbat" giustappunto: in un modo tuttavia comprensivo di un qualcosa che anche il verbo e l'accento sapevano ricondurre, alla fine, verso quei sentieri della notte sui quali per gli antichi, per i greci, camminava e pulsava la poesia.
Renato Civello