Studi » Velio Carratoni: Poeta dissanguato
da "FERMENTI", nn. 174/176, 1986
Su "La Stampa" di Torino del 15 dicembre 1985, un certo a.p., a pag. 7, ha definito Marino Piazzolla "persona stravagante, filosofo e pittore..." e non già poeta, in riferimento a questioni di cronaca nera, nelle quali Marino si è trovato trascinato, non da protagonista, ma da coerede di un patrimonio inaspettato, non goduto e consistente, arrivatogli in età non idonea a subire emozioni massacranti. "Cronaca vera" ha seguito tutta la vicenda dell'eredità Piazzolla, mentre i giornali nostrani che contano, tranne "Il Tempo" di fine giugno 1985, non hanno dedicato nessuno spazio, non dico per rievocare, ma almeno per comunicare ai lettori la notizia della sua morte. Gli stessi giornali che invece non si astengono dal parlare dei soliti falsi miti e dei soliti poeti che contano. Pochissimi, per la verità, rispetto al nugolo agguerrito di cantori di versi, di rime, di vocaboli, per lo più frustrati e paranoici che si vantano di non sapere cosa sia la realtà, e la vita la vivono solo in chiave onanistico-esibizionista, in nome dell'umoralità schizoide.
Ad a. p. de "La Stampa", vorrei chiedere: "Ha mai conosciuto Marino Piazzolla?"; "Su quali elementi ha basato le sue definizioni improprie?". Piazzolla, non mi sembra sia stato persona "al di fuori di un ordine prefissato dalla consuetudine o dalla normalità". Fino all'età del pensionamento ha svolto funzioni di professore di storia e filosofia nei licei; ha vissuto parcamente come può permettersi un insegnante dello Stato; per anni si è adattato a vivere in mini o in modeste abitazioni, dedicando la maggior parte del tempo allo studio, a scrivere, a seguire ogni manifestazione artistico-culturale della capitale. Lo si vedeva dappertutto, da osservatore attento, da rampognatore nei confronti di ogni stortura sociale e di cricca. Con la sua severità, non stimava i carrieristi, i ruffiani, gli approfittatori.
Era animato da una moralità da non confondere con il moralismo d'accatto, che rigettava e contestava, come gli ipocriti e i farisei. Tra i tanti intellettualoidi nostrani si distingueva per un senso della semplicità che non aveva nulla a che vedere con la stravaganza di cui parla a.p. (chi è costui?).
Se, quasi alla fine della vita gli è capitato di fare i conti con "La puzza del danaro" è stato per lui - persona schiva e disinteressata
- una vera e propria calamità. Negli ultimi mesi Marino è diventato diffidente e strano per i vari malanni che l'affliggevano e per un nuovo ruolo a cui non era abituato. Lo dice chi l'ha conosciuto da vicino e frequentato per molto tempo.
"Sono convinto", mi diceva, "di aver rinnovato la poesia italiana non soltanto attraverso l'immedesimazione con la lirica greca, ma attraverso l'imagismo, il magicismo, l'analogismo e la presenza di più poetiche, elaborate in circa cinquant'anni di ricerca e di creazione". Concetti, oltre ad altri, trattati in una intervista rilasciatami nel 1977 e pubblicata su "Fermenti" nel n. 4, pag. 18 (una specie di summa della sua poetica). Un anno prima di morire, mentre camminavamo nei pressi di casa sua, irritato, come al solito, per le interminabili pratiche burocratico-amministrative della successione, che gli era piombata addosso, fermatosi, d'improvviso, in un angolo, proprio di fronte ad un'auto rossa e stranamente imbrattata, fissando-mi negli occhi mi ha dettato Il marchio degli italioti. "Hai una penna?". "Un momento che la prendo", gli ho risposto. "Scrivi", ha proseguito. Mi sono appoggiato alla macchina imbrattata verso le ruote di un fango spesso e nerastro: "Gli italioti maltrattano i bambini; trascurano i vecchi; dimenticano i morti". Dopo tali parole fu assalito da un mutismo nervoso, sfogato da una camminata, quella sera, più lenta e affaticata del solito.
Ciò che i suoi detrattori o abulici fruitori di una cultura da loro stessi non conosciuta, dovrebbero fare, è leggere i suoi versi che saranno smisurati, tanto da divenire spesso complicati, a volte prolissi o robusti, ma non per questo non degni di essere considerati, proprio perché si dovrebbe incominciare a fare una vera cernita di ciò che di buono e autentico ha scritto. Ma non si esprima alcun giudizio, solo in rapporto alla quantità dei versi. Qualcuno, al riguardo, ha fatto il paragone con Dante, Leopardi, Petrarca, volendo dimostrare che le parti valide ditali poeti sono poche e rare. D'accordo, ma a parte l'eccezione di Dante che è stato grande, in linea di massima, anche nella quantità (non si dimentichino le cantiche della Commedia, smisurate ed ampie, ma non per questo non sempre valide - è inutile fare i crociani ad ogni costo -) per esprimere un giudizio complessivo su di loro ci sono voluti anni di studio, di applicazioni, di analisi. Per Marino Piazzolla, a parte tutti i critici che si sono occupati di lui, in chiave militante ed occasionale, da Sansone a Spagnoletti, da Frattini a Cimatti, da Barberi Squarotti a Dell'Aquila, da Raya a Belli, siamo all'anno zero per quanto concerne una sua vera e propria collocazione nel panorama della poesia italiana contemporanea. E stato escluso dalle più importanti antologie ~pparse in Italia, negli ultimi anni. E i vari Raboni, Siciliano, Sanguineti, Forti, Mengaldo, Anceschi, Bigongiari, Contini ecc. non si sono mai occupati della sua poesia. Manacorda, nella Storia della Letteratura con-temporanea, 1940-1975, Ed. Riuniti, 1977, lo ha appena citato "tra altri nomi destinati a diversi esiti nella poesia e nella critica". Per Carlo Bo, sarà più facilmente compreso dai francesi, in quanto la sua poesia passa attraverso Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Valéry, Apollinaire. Così è avvenuto con le lunghe interviste alla radio francese di pochi anni fa, con l'attenzione di Gide alla sua poesia e la paziente critica del poeta provenzale Méjean. Il giudizio affrettato di Bo, sa troppo di disimpegno. Attilio Bertolucci rimaneva impressionato ogni volta che riceveva un suo nuovo volume: "Ma non scrivi troppo?". E tali giudizi avventati lo inorridivano, proprio perché non si basavano sulla cernita effettuata, ma sul pregiudizio della quantità, di fronte alla quale, in Italia, troppi Pedullà, Asor Rosa, Ramat ecc. finora non l'hanno preso in considerazione. Tanto che Marino in "Quel muro di silenzio", tratto da Il Pianeta nero, ed. Fermenti, 1985, indignato, ritenendosi poeta dissanguato, li ha invitati ad ascoltarlo: "Vi ordino di leggermi / anche se siete / volutamente ciechi /...". La sua litania martellante prosegue: "Vi ordino di aprire i miei libri...", "Vi ordino di aprire / le orecchie colme di cerume..."; "Siete fatti di mosto putrefatto / di zucchero inacidito / non avete mai fatto bollire / i vostri coglioni / a cui somigliate..."; "Voi baron fottuti / - come diceva Leopardi - / vi coalizzate contro l'isolato..."; "Da cinquant'anni / sono il vostro incubo. / Per vostro decreto occulto / devo restare ignorato..."; "Voi siete cadaveri / voi già puzzate di carogna / e avete la mano facile all'incasso..."; ecc...
Queste apostrofi, rivolte verso il potere delle nostre lettere amorfe e asservite, feudo dei politicanti, sono lanciate da Marino, come una specie di maledizione ad oltranza, che dovrebbe far scuotere chi èsuperstizioso e codino.
Gli stessi concetti dei versi di cui sopra sono riportati in un altro scritto, pubblicato su "Fermenti" del luglio-ottobre 1978: "... nel nostro Paese la cultura fa le sue covate nelle prefetture e nelle questure. Da questi luoghi deprimenti escono schiere di critici e di letterati, provinciali fin nel midollo e mercanti ingordi, tuttora legati fra di loro "baron fottuti coalizzati contro l'isolato" (si noti la citazione insistente n.d.r.), - come diceva Leopardi - da interessi esclusivamente editoriali o di dan, interessi che non hanno nulla a che vedere con l'arte, con la poesia e con la cultura nel senso antico e moderno della parola".
Questo suo lato impulsivo e sanguigno non gli faceva accettare nessuna forma di diplomazia sancita. Per questo dovremmo appel-larlo "stravagante"?
Qualche giorno fa ho sentito Toti Scialoja definirlo "poeta degli anni cinquanta". Ed ancora: "Era un illuso e un velleitario, poverino. I suoi versi sono poca cosa. E poi era anche una specie di persona senza nerbatura e incapace di reagire".
"Ma lei l'ha conosciuto davvero?".
"Negli anni cinquanta aveva creato poco e male. Sono andato all'estero e quando sono tornato già non esisteva più".
"Lei ha detto che era incapace di reagire, ma era un tipo che all'occasione poteva essere rissoso. E poi ha letto Lettere della sposa demente?".
"Lasciamo andare. Oggi c'è posto per tutti".
Un altro scrittore che ha pubblicato con Mondadori: "Era un autosufficiente. Si credeva di essere chissà chi. Rappresentava un genere di cultura che non m'interessa".
Un critico da me interpellato per rievocarlo presso una certa associazione della capitale: "Marino mi ha rotto i coglioni".
"Oggi di lui non si parla affatto o è ricordato da giornali scandalistici, per fatti di cronaca, che hanno come tema la famosa eredità". Ho rivolto tale domanda a molti critici militanti, molti dei quali poeti, proseguendo: "Ma non sì può fare qualcosa per ricordano, se non altro per informare chi lo conosceva che è morto? Moki non sanno neanche questo".
"Che c'entra, quei giornali che l'hanno trattato in quella chiave non fanno testo. Marino non ha bisogno di essere valorizzato o trattato, ha un'ampia bibliografia. E poi è stato un poeta che ha sempre avuto uno stipendio, non da poeta, ma da professore. Ti sembra niente?" Il discorso si è chiuso così. Ho provato a proseguirlo, ma all'infuori di Alberto Frattini che ha sempre studiato e seguito Marino, chi avrebbe potuto, non mi ha dato ascolto. Qualcuno, visto il mio interessamento, mi avrà anche frainteso.
Un certo "benpensante", fissato di ascetismo, di castità ad oltranza, di moralismi confezionati, di digiuno per prevenire ogni infermità, di ascetismo per aver troppo maneggiato carta moneta, mi aveva promesso che mi avrebbe presentato Piazzolla - parlo degli anni sessanta - se per un anno avessi stampato su "Fermenti" un gallo da lui appositamente disegnato. Respinta una proposta del genere e conosciuto lo stesso Marino, mi sono divertito ad informarlo della proposta avuta. Al che Marino, riferendosi a tale artista, pittore, imprenditore, ora vincitore di un premio assegnatogli direttamente dal Presidente Cossiga esclamò: "Ecco l'Italia di oggi. C'è perfino chi baratta le conoscenze". Ed alla morte di Marino, il moralista, poeta, retorico e declamante, ora datosi al teatro, con tono nebuloso ed altisonante, ha affermato: "Così è morto il professore.. Ora cesserà di fare la mano morta sugli autobus".
Gli esempi, alquanto blasfemi su riportati, dimostrano quanto sia di bassa lega il nostro ambiente letterario-culturale. Un ambiente ove vigono la mafia di potere, il favoritismo, l'analfabetismo di ritorno, la prepotenza, la grettezza. Chi può farlo, se ne vada all'estero, se vuol fare cultura o quanto meno si allontani da città dormitorio, burocratiche e chiuse come Roma.
Marino c'era venuto apposta, prima da S. Ferdinando di Puglia e poi da Parigi. Ed a Parigi era stato apprezzato da Gide. A Roma è avvenuta la sua imbalsamazione, ad opera di tristi figuri che con la cultura hanno poco a che vedere, anche se da essi dipende ogni decisione per le sorti di artisti, giornalisti, registi ecc.
Per Pasolini c'è stata una persecuzione ad opera di ipocriti benpensanti. Rileggiamo al riguardo ciò che Piazzolla scriveva su "Fermenti", n. 1-2 (1976), a proposito di lui: "...diventa grave il fatto che Pasolini sia stato ucciso per ragioni delicatamente private e che divengono, quindi, esecrabili, mentre non diventano delitti la speculazione edilizia, i ministri che rubano, lo sfruttamento degli operai, lo strapotere dei vari centri di potere politici e culturali, le varie mafie, le ipocrisie praticate da tutti gli ideologi, la violenza, l'aver messo le masse nell'impossibilità di controllare le malefatte della classe dirigente e la demagogia delle opposizioni, di accettare la ipocrisia come norma di buon costume, il farci diventare complici di un andazzo politico-sociale-morale che sta dilagando e che ha trasformato la società in un coacervo di delitti che sono molto più gravi della pratica dell'omosessualità... Tutto questo accade e non può essere diversamente in un paese in cui non c'è stata una lunga tradizione di cultura libertaria. Alcuni dicono morte squallida, altri fanno vita squallida". Tematiche de Il Pianeta nero che sono sempre affiorate nei suoi interventi lungimiranti.
Altri esempi di una sua posizione critica sempre autonoma e stimolante: "Le riviste letterarie un tempo nascevano, anche in Italia, dallo slancio puro di un nuovo gruppo che aveva qualcosa da dire; oggi, le riviste nascono con dietro le quinte gruppi politici interessati che se ne infischiano, in realtà, della vera cultura o del vero intellettuale, volendo soltanto tirar paglia sul proprio fuoco..." ("Fermenti", n. 10-12, 1977); "Nel secolo XX, noi stiamo scontando praticamente tutti gli errori teorici che furono l'orgoglio di quasi tutta la cultura dell'800. Questi errori teorici sono: l'idea di progresso, il liberalismo, la democrazia, il socialismo, in politica; l'idea di uno stato totalitario in diritto; la fede nella scienza in filosofia. Tutti questi miti commisero il piccolo errore di dimenticare l'uomo...", cit. Su Moravia:"... mi limiterò a dire che è un buon narratore ma un accorto e zelante amministratore di quella politica culturale che in Italia promette quattrini e potere". Su Montale: "...malgrado abbia vinto il premio Nobel, penso che non sia andato aldilà di una poesia fondata sui presupposti di un pessimismo di maniera, prefabbricato e non sostenuto da una reale esperienza esistenziale...".
Su Ungaretti: "Non esitò a servirsi di Mussolini per imporsi come poeta ufficiale, come professore di letteratura italiana, nominato per chiara fama e, per ultimo eletto Accademico d'Italia. Comunque Ungaretti, da un punto di vista poetico, possiede una certa freschezza e un autentico abbandono lirico che lo distingue da Montale. Dei tre poeti, il più umano e senza dubbio il più legato sia al mondo antico che al mondo moderno fu Salvatore Quasimodo, poeta ricco di pathos greco e di magia tutta contemporanea. A tal proposito devo dire che dei tre poeti il più benevolo nei miei riguardi (aveva di me un'autentica e sincera stima) fu precisamente Quasimodo". E Cardarelli?"... pur essendo dotato di viva intelligenza e gusto, come autodidatta aveva letto pochissimi libri e conosceva pochi autori e in superficie...". Da "Intervista a Marino Piazzolla", a cura di Velio Carratoni, Fermenti, n. 4, 1977, cit.
La persecuzione del mondo delle lettere nei confronti di Piazzolla, ha creato nei suoi confronti, come già detto, l'equivoco del poeta che "scrive troppo". E riferendosi a tale equivoco, mi diceva: "Oggi vanno di moda gli autori di cacatine. Chi scrive con una struttura un po' più rifinita mette in crisi". E riferendosi ai critici: "Non mi leggono, in quanto non hanno la capacità di comprendermi. Anch'io ho scritto le cacatine. Leggano almeno quelle. Ma no, sono di quell'autore che il più delle volte ha il fiato grosso".
Velio Carratoni