Studi » Giovanni Battista Bronzini: L'uomo l'intellettuale il poeta
Era da poco iniziato l'anno scolastico 1939-40 quando, alla fine di ottobre, arrivò a Matera Pasquale Piazzolla. (Gli arrivi o, per dire con linguaggio dell'epoca, le discese in questa città di trogloditi, come fino allora si descriveva Matera, di personaggi che diventeranno illustri, da Pascoli in poi, sono sempre memorabili). Egli, che aveva studiato e si era formato a Parigi, fu nominato supplente di francese al R. Liceo-Ginnasio E. Duni di Matera. lo che frequentavo la V classe ginnasiale fui suo alunno. Abituati a studiare la lingua straniera come le lingue morte, il latino e il greco, attraverso le regole di grammatica e con interminabili e sfiaccanti esercizi scritti, fummo colpiti dal suo modo nuovo d'insegnare la lingua dal vivo, metodo che rispecchiava il modo stesso con cui egli l'aveva imparata nei molti anni trascorsi in Francia. Non meno ci entusiasmavano le leffure di poeti, riflessioni critiche e problematiche filosofiche che introduceva spesso nelle lezioni (con gioia e sollievo di noi studenti, che così evitavamo l'incognita delle interrogazioni!). La filosofia fu la disciplina professionale che Piazzolla insegnò negli anni successivi come docente di ruolo, non so dove, ma per maggior tempo a Roma. Qui egli poté soddisfare i suoi vari interessi collaterali, che diventarono presto preminenti sulla stessa attività didattica. A Roma visse da bohémien della cultura, a contatto con poeti, scrittori, pittori e critici, frequentando caffè di letterati e artisti, gallerie, mostre, convegni, conferenze, in quel fervido decennio di operosità culturale, e non solo culturale, a ridosso della guerra di liberazione, che furono gli anni Cinquanta.
Ricordo di averlo per caso incontrato una sera ad una conferenza del prof. Paolo loschi, di cui ero assistente, e di averlo ritrovato un'altra sera con i suoi amici in una osteria nei pressi di Piazza del Popolo, impegnato e infervorato con gli altri in una discussione conviviale di filosofia e di arte, alla quale timidamente partecipai anch'io. E così a Roma si realizzava l'uomo com'era e voleva essere, aperto, schietto, generoso, come un eterno ragazzo, e l'intellettuale trovò nella poesia la espressione più congeniale al suo modo di vivere e di pensare. Da allora, dopo il mio trasferimento a Bari, pendolare nel 1959 e definitivo nel '65 (qualche nota autobiografica del testimone è necessaria per una testimonianza sincera), ho seguito da lontano la produzione poetica di Marino (così lui si faceva chiamare dagli amici), che mi è sembrata in lievitante crescita di originalità di idee, immagini e forme poetiche, in lotta sommersa e alla fine dichiarata contro il conformismo di maniera o, peggio, d'interesse agonistico, anche con punte imprevedibili di accesa denuncia contro le dilaganti consorterie dei premi letterari. Ci ritrovammo a metà degli anni Settanta e continuammo a frequentarci per molti anni a Bari, dove egli veniva spesso a visitare la sorella e trascorrevamo tante piacevoli ore a casa mia: conversando dei suoi libri che si succedevano senza pause e a ritmo accelerato, gli esprimevo le impressioni immediate di un lettore che si accostava alla poesia con occhio sempre più antropologico (per deformazione o correzione professionale?). Un'ottica, devo dire, che Marino accettava con entusiastico consenso. Conforme ad essa era il mio punto di vista che oggi confermo con maggiore convinzione.
Scorgo una continuità di pensiero poetante (per usare una felice formula applicata a Leopardi) fra le sue prime prove e le successive, fino alle ultime: di un pensiero trasfuso in poesia che lievitò al contatto diretto con la cultura francese degli anni Trenta. Da ricordare che a Parigi si laureò in Lettere e Filosofia con una tesi sulla novellistica e il teatro di Pirandello, ne lesse un brano allo stesso Pirandello che se ne compiacque, frequentò Sartre, Valéry e il vivaio di giovani letterati e artisti che fioriva attorno a loro. A Sartre risale l'avvicinamento di Piazzolla alle problematiche esistenzialistiche e fenomenologiche, che costituiranno una corposa ossatura tematica della sua poesia, anche se condannerà in Intellettuale massificato (1973) la svolta postsessantottesca del critico e dichiarerà la caduta di uno dei suoi maggiori idoli. Valéry gli trasmise il simbolismo ereditato da Mallarmò, il gusto dell'epigramma e dell'aforisma, di cui Marino diede una prima prova con I detti immemorabili di R.M. Ratti (1960). Valéry gli lampeggiò inoltre, sul piano stilistico e ideografico, il passaggio improvviso dal silenzio alla parola (come in Cimetière marin) e l'ondeggiamento fra il mito greco e il mito romantico (come in Narciso). Alla base della formazione di Piazzolla vi sono, dunque, scrittori e poeti di tendenza filosofica che hanno avuto una forte influenza sulla sua poesia. lì mondo delle idee che egli esprime e l'impalcatura delle immagini con cui lo esprime fanno capo a un pensiero continuamente in moto alla ricerca forse mai conclusa di una forma poetica appagante.
* * *
La prima sua voce di poeta della natura mi si rivelò nel poemetto in prosa Pèrsite e Melasia, definito nel sottotitolo: Mito (1940). Conservo I esemplare ch'egli, mio professore di francese a Matera in quel lontano 1940, mi offrì a chiusura dell'anno scolastico con la dedica 1"AI caro alunno Giovanni Bronzini perché ricordi sempre il suo professore di francese. Pasquale Piazzolla". (Pasquale era il suo nome di battesimo col quale firmò i suoi primi scritti, ma poi preferì il nome Marino che corrispondeva al cognome della madre, Adelaide Marino) E una favola pastorale ispirata al gusto arcadico-romantico per le espressioni e atmosfere elleniche, che si riproducono in un crescendo di dialogo fra gli amanti, l'un l'altro avvinti da uno spasmodico amore sensuale, che li consuma come una idillica e tragica passione dannunzianamente stilizzata. S'inizia come inno alla vita e si conclude come inno alla morte in un'atmosfera romantica, dannunzianamente stilizzata. Mi piacque e mi entusiasmò molto. Veniva in-contro al mio stato d'animo di adolescente ed era in sintonia con le mie letture di allora, ch'erano Foscolo, Novalis, Kleist, meno (e solo per i suoi meravigliosi squarci di natura animata) D'Annunzio. Rileggendo oggi quel poemetto con maggiore coscienza critica e riconoscendolo come momento primitivo (in senso etnologico) dell'attività poetica di Piazzolla, mi sembra che vi si possano trovare preannunciate alcune costanti di pensiero e di stile delle sue opere maggiori e più mature. lì mito ricreato in prosa poetica da Piazzolla non è un mito ben determinato, è un momento mitico che si compie in un ciclo di tempo naturale, qual è il ciclo annuale delle stagioni, e si ritualizza in un dialogo svolto tufto a cielo aperto, presente soltanto la natura con tutti i suoi elementi, tra Pèrsite e Melasia, due personaggi mori-turi e insieme redivivi.
La forma dialogica renderà umano il pseudodialogo fra la sposa demente e il suo partner assente che è un fantasma da lei stessa creato un essere 'altro" partorito dalla follia cosciente della sposa: paradosso pirandelliano, che determina l'isolamento della sposa da tutti gli esseri che la circondano. Eppure anche le Lettere della sposa demente (1975) - la cui dedica manoscritta sull'esemplare donatomi nel 1975 ("a Giambattista Bronzini perché si ricordi del suo vecchio professore. Con sincera stima e amicizia affettuosa. Marino Piazzolla") si richiama involontariamente, seguendo una naturale parabola alla dedica, segnatami su Pèrsite e Melasia nel 1940 - vogliono configurare fiabescamente un mito domestico, localizzando una storia che non poteva essere creduta vera se non in un luogo nordico, in un villaggio delle Fiandre, dove una donna vive fuori del tempo (non conta i giorni e non sa gli anni), impazzisce e si fa più bella per convincersi d'essere ancora in vita, diventa sposa in sogno, quindi vergine-madre, ma nello stesso tempo si tiene ancorata al suo essere umano: piange per sentirsi più viva, impallidisce e muore sopra una collina.
* * *
L'idea mitica che ispira e percorre il dialogo di Pèrsite e Melasia dall'inizio alla fine è l'idea dell'eterno ritorno. Essa genera espressioni come queste:
Pèrsite: La terra rinasce, la luce m'invade. La terra! La gran terra che ci conduce a Dio solo col suo grande coro e sa vincerci col suo perire eterno ch'è un rinascere orgoglioso di vita, di vita, di vita!
Melasia: È la gran festa vergine della terra in fiore, sempre nuova, legata al suo eterno ritorno.
Il mito dell'eterno ritorno è l'idea centrale della fenomenologia religiosa di Mircea Eliade (Le mythe de /'éterne/ retour [1949], Il mito dell'eterno ritorno [1982]), ma già nella sua produzione giovanile di poeta e narratore Eliade rivelava la sua attrazione verso la dimensione trascendente del mito e del sacro. In ciò risentiva dell'influenza di André Gide. Non fu un caso che le poesie e i romanzi di Eliade venissero tradotti in Francia proprio nei circoli letterari d'ispirazione gideana. Ed è perciò significativo che sia stato proprio Gide a dare il primo autorevole giudizio di consenso a Pèrsite e Melasia, dichiarando che la poesia di Piazzolla gli pareva "inventata ed espressa con quella patetica innocenza con cui i lirici greci inventarono i loro bellissimi canti".
* * *
Il rapporto tra silenzio e presenza di Dio è in germe in Pèrsite e Melasia:
Pèrsite: Tu tremi nell'aria di questa sera propizia e vorresti penetrare in te stessa, farti più buona d'un angelo; cogliere il tuo Dio nel silenzio d'u n'ora furtiva e abbandonarti all'avvenire solo per essere più umana.
Quel rapporto costituirà una coordinata laicamente esistenzialistica, mai ciecamente mistica, nelle opere degli anni Settanta. Diventerà più vissuto e sofferto, papinianamente gridato inonderà soprattutto il Viaggio nel silenzio di Dio (1973):
Forse Dio è silenzio
o vento che si racconta la nostra umana presenza e ritorna con noi, dove più si tace in umiltà, fra lumi e voli
d'immagini senza storia, grumo d'amore non svelato sull'oscuro pianeta, che lo nega e lo cerca.
"Il silenzio è angelico, il rumore è satanico", era un aforisma contrastivo che Marino ripeteva agli amici passeggiando per Roma.
L'idea di ancorarsi al passato sul piano del divino e di proiettarsi nel futuro sul piano dell'umano alimentò la solitaria ricerca di Simone Weil (1909-1943) e indusse la scrittrice alle dure prove che la portarono alla morte. Piazzolla visse quel travaglio e lo espresse nei due poemetti lirici già citati: Viaggio nel silenzio di Dio (1973) e Lettere della sposa demente (1975), che sono anche lo specchio della ideologia civile dell'intellettuale e della sensibilità umana del poeta.
* * *
Un altro importante serbatoio dell'immaginario poetico di Marino è quello delle trasformazioni o metamorfosi, il cui principio magico è annunciato attraverso una proiezione di metempsicosi che è nel saluto ultimo (e finale del poemetto) di Pèrsite e Melasia al tempo del solstizio d'inverno:
E quando non saremo più tenera carne, noi ritorneremo, forse, ad essere il colore d'un fiore che odorammo e a cui trasmettemmo un po' della nostra gioia.
Ritorneremo forse a specchiarci nella goccia di rugiada che fu il nostro sudore notturno; ma ci sentiremo assenti!
Ritorneremo nel canto dell'usignolo che ci fece piangere di felicità e tu vorrai nuovamente sorridere alla luna senza poter ridivenir te stessa.
Ritorneremo ad essere ombre sotto le querce remote, ove si appoggeranno i futuri pastori e ove dormirà la pecora madre per seguire il belato degli agnelli smarriti.
Ritorneremo, Melasia, ad essere un ramo che regge un nido o il frutto che cadde maturo sulla terra e che nutrì, per un inverno, un popolo di formiche.
Ritorneremo forse come quella farfalla che tu cullasti col tuo canto, in quell'alba che parve immota e accrebbe la nostra potenza di vita.
Ritorneremo forse ad essere lucciole che portan lontano le anime dei fanciulli morti e seguiremo, tra l'erbe falciate, le melodie dei grilli cresciuti dopo le prime mietiture.
La metamorfosi come fenomeno storico-religioso comprende credenze di varia origine e natura. Qui non si tratta di metempsicosi vera e propria di tipo indiano, greco-romano, eretico, o di libero pensiero moderno (Telesio, Bruno, ecc.), tantomeno di dottrina protestante. Qui si tratta di metempsicosi indotta dalla concezione animistica della natura, con l'infiltrazione di una vena orfica, non estranea a quel philosophus vagans che fu anche Piazzolla. E se ne ha traccia molto esplicita nel compito quasi obbligato che Pèrsite assegna a Melasia e a se stesso quando entrambi saranno pure anime:
lo, Melasia, io forse ritornerò ad essere l'angelo che fui, e non avrò dolore, né avrò alcun ricordo del nostro soggiorno.
Tu invece verrai in una di quelle notti estive, quando l'occhio dell'uomo sarà desto e colmo di presagi, tu verrai su questa grotta vuota per narrare alla mia vita, quaggiù divenuta ginestra, l'eterna favola dell'uomo.
Mi insegnerai, tu, l'ultima verità.
Tu, allora, mi svelerai perché la morte è un sogno, tu Melasia, tu mi dirai perché tutto quel che vive è opera di un eterno morire e quel che muore opera di un eterno nascere!
Quella vena orfica qui appena infiltrata si svilupperà in Esilio sull'Himalaya (19532) che non celebra tanto una solitudine quanto un isolamento d'iniziazione in un paesaggio alto e deserto dove domina il bianco che "è solo - vela del tempo -" a cancellare l'ombra del Dio, "Signore dell'ape e del sole", invocato dal poeta:
O tu maturi
questo corpo d'uomo
in tanta solitudine!
E ancora:
lo torno alla tua luce dal mio buio, [...].
Lascia che il mio costato batta sulla pietra come quando apristi la spelonca
e fui dolore per te che t'assenti.
Prigioniero da sempre, ancora mi punisce la memoria.
Qui è innucleato il mito orfico-platonico della spelonca, da cui si liberano i prigionieri del corpo.
Di ispirazione orfica è certamente il superamento della barriera fra il divino e l'umano, che si rivela e si riafferma in tutte le opere di Piazzol la.
Dichiaratamente nel titolo, ma forse meno direttamente orfici, sono Gli occhi di Orfeo (1964), che pure tracciano una Poetica intinta di orfismo:
La parola è sola. Fa luce aggiunge suono al vuoto ed è raggio d'un paese volato.
La parola è trono di favola... Addiziona i Soli sulla lavagna e inventa il dio che non c'è.
In Metamorfosi della stessa raccolta:
Sulla giostra d'un girasole un grumo d'api succhia squame di polpa gialla.
E in Ultima lira:
lì mare con le sue deliranti metamorfosi sottomarine che dettano orrore e stupore.
* * *
Orrore e stupore sono le impressioni che già coglieva l'uomo del medioevo nello spettacolo orrendo e stupendo dell'universo come reazione diretta alle due facce della natura. Questa duplicità di apparenze, che erano reali apparizioni di esseri angelici e satanici, belli e mostruosi, è resa plastica nella iconografia medievale e viene descritta nei Bestiari romanzi. Ai quali opportunamente ma genericamente si è rimandato da parte del prefatore (G. Aventi) del più volte citato Viaggio nel silenzio di Dio, che è poi anch'esso un viaggio iniziatico, forse l'ultima tappa della iniziazione con l'affermata esplosione di gaudio per la meta raggiunta. E probabile che il tramite fra Piazzolla e i Bestiari sia stato il poeta provenzale René Méjean, suo traduttore e interprete, ch'egli sentì vicino come un fratello d'arte. Ma, al di là delle influenze di letture poetiche, alla base di tutto l'impianto ideologico e immaginario dell'autore del Viaggio, c'è una concezione del sacro in perfetta corrispondenza e sintonia con la corrente d'idee che negli anni Trenta attraversava il versante antropologico della cultura francese: un versante che in Italia era pressoché ignorato, tenuto a distanza, quasi anatemizzato dall'idealismo di marca crociana. lì sacro professato dalla etnologia europea di quegli anni, ch'ebbe il suo centro propulsore in Francia, è prelogico (Lévy-Bruhl), ma ha un itinerario logico per essere inquadrato nella storia e nella civiltà. Analogamente il sacro concepito da Piazzolla arriva a Dio attraverso un percorso "profondamente profano e umanamente moderno" (Aventi) e trova un più diretto e familiare contagio nel pensiero poetico di Simone Weil, la cui influenza su Piazzolla è stata opportunamente sottolineata da G. Spagnolettì.
Troviamo incastonata nel Viaggio questa definizione del sacro:
Sacro è
ciò che allo stupore avvia
e si rivela quasi come ferita in ogni gemma del creato.
Prima quartina di una strofa (decina) che, come le altre, si dilata e si restringe con endecasillabi, dodecasillabi, tetradecasillabi e ultra, alternati a ottonari, qui nari, quaternari, ternari, in un'anomala serie di ballatelle trecentesche. Dello svolgimento del tema dovrebb'essere motivo di apertura, che potrebbe preludere o far da chiusa a una laus creaturarum di tipo francescano. Invece spunta a metà strada, come rivelazione lungo il viaggio.
Le gemme non sono il sole, la luna, l'aria e il vento, l'acqua, il fuoco e la terra, ma i loro rappresentanti terrestri: animali simboli di bene e di male, esseri animati misti di divino e umano, inseriti nel sistema comunitario che offre la natura, fatta di pieni (la foresta) e di vuoti (la pianura), di altitudini isolanti e vallate formicanti, in un intrecciarsi di significati opposti e in un succedersi improvviso di atti differenziati di libertà e ritualità, di vita e di morte.
Al mattino è "il gallo che si festeggia / e squilla di luce nella sua danza, / acceso / nel grumo / delle sue piume, / così felice del mattutino / sentirsi re sotto la stella di sangue". Col calar della luce la gazzella "esce mansueta dalle foglie, scortata dalla foresta; I e si addentra nel vuoto, ingentilita dalla vita breve". Al cader della sera senti "l'eco della belva I che la criniera avvolge per un rito I e nelle zampe circola, cupa la forza I che sbrana, e si completa I nel misfatto per fame I E qui s'innalza al sole, come un raggio I il lamento che uccide". Ed ecco, in questo cupo scenario di morte e lacerante suono di sterminio che pur tende a farsi luce ed eco:
Anche l'ape
s'alza e tocca i fili
d'un cielo che la guida verso la rosa.
Sono due segreti nel profilo dell'ora
un evento
del cosmo.
Quale ordine
sull'ali, oro preciso e cadenza di petali, pronti alla zuffa.
Il nettare che l'ape succhia è giovinezza
che si fa miele,
e, nel sibilo, si riporta alle cadenze degli astri:
all'unità che domina e affratella
le membra lacerate della rosa
come una piaga della terra.
L'ape è un animale centrale nella simbologia metafisica di Piazzolla. E un animale sacro per eccellenza, perché fa parte del sacro divino (esse apibus partem divinae mentis et haustus aeterios dixere Virg., Georg. 4). Per la sua purità simboleggia l'anima immortale. E animale diurno e ama il sole (Plinio e Columella), tanto che dal sole era considerata figlia e dal sole poteva riprendere la vita. "Signore dell'ape e del sole", scrive Marino in Esilio sull'Himalaya e la insegue proprio per questa sua essenza divina, per questa parentela col sole e con la luce, direi che l'ha inseguita fino alla morte, e in un momento di ebbrezza di vita (Pietà della notte [1957]) aveva scritto nel Testamento poetico:
Seppellitemi di giorno, non al tramonto;
io che amo la luce
voglio che il sole assista al funerale.
Gli animali orrendi che affollano l'universo immaginario di Piazzolla incutono terrore, fanno paura e ribrezzo, tant'è che in talune figure da lui descritte mi è parso di avvertire echeggiamenti dannunziani: penso alla processione di Casalbordino e alla impressione che ne riceve Giorgio Aurispa nel Trionfo della morte. La relazione di causa ed effetto tra morte e vita, che l'antropologia europea tra il 1920 e il '30 porse ai letterati e che fra gli altri D'Annunzio assaporò e venerizzò esteticamente, Piazzolla l'avvertì sul piano concettuale e stilistico. Lo riscopriamo ancora una volta nel concetto di mito che è alla base della favola di Pèrsite e Melasia, due simboli eterei incarnati che nascono e muoiono per rinascere con la natura. E lo riscontriamo nelle insistite iterazioni e litanie poetiche che investono col trascorrere delle stagioni tuffe le parti dei loro esseri e delle loro essenze, come in questo brano finale dell'Equinozio di primavera che ricalca spirito e ritmo della Pioggia nel pineto:
Salutiamo il delirio della natura che ha sciolto l'ultimo muschio e si fa chiarezza sotto un sole più ardito.
Salutiamo il nostro amore rinnovato, che ha conosciuto altre verità e seguito l'elemento fino alla gioia.
Salutiamo il silenzio, che rende più divina la vita e intenerisce le cose facendoci più innocenti.
Salutiamo il candore di questi prati, che ieri erano ancora spogli e pieni d'attesa.
Salutiamo la nostra redenzione, che il vento allegra e il profumo culla soavemente.
Salutiamo, Pèrsite, questo primo giorno in cui tutto ci sembra nuovo e iniziale, vicino alle agresti bellezze e ai segreti degli astri.
* * *
Dal tipo semplice al tipo complesso del mito: dalla prima prosa poetica del 1940 ad una delle ultime raccolte di liriche del 1984, che 5 intitola Un po' di meraviglioso. È un meraviglioso medievale e moderno insieme. Lo compongono tanti svariati animali racchiusi co-me in un'arca o nella balena di Moby Dick, in un animale cosmico dal cui ventre risale la loro voce, ispirato da un pensiero di Novalis ("Noi viviamo in realtà entro un animale di cui siamo i parassiti. La costituzione di quell'animale determina la nostra e viceversa") premesso alla lirica Forse è il nostro cosmico:
Il grande animale c'è
da qualche parte c'è.
E' un mostro forse
egli ha semplicemente un corpo immenso arti, tanti arti appuntiti
e una testa che tocca il sol.
Ecco ritrovata la conformazione del Sacro piazzolliano nella sua fase primordiale, prima e fuori del creato e del tempo. Con la precisazione della sua natura informe:
Era prima del cielo intatto
era la pura sostanza permanente
nell'anonimato di tutte le cose impazzite.
Era molto prima del movimento
a cicli di ritorni e di stagioni sfregiate
da tutti gli impulsi
che non hanno nome quaggiù.
E della sua sede umana in fase storica:
Il sacro è dentro al cuore ci salva fino alla vita.
Ci salva fino alla morte.
È la nostra razione d'eternità.
Il sacro è la bellezza
il sacro è la verità.
Qui Piazzolla, percorrendo la rapida traiettoria della poesia, raggiunge il punto conclusivo di una fenomenologia del sacro, quale si dibatteva negli anni Trenta in Francia e si dipanò in vari rivoli per tutta l'Europa, anche in Italia, nelle riflessioni in proprio che ne fecero gl'intellettuali più vicini alla cultura francese del primo quarantennio del secolo. Uno di essi fu Carlo Levi, che in Paura della libertà (libro concepito e scritto in Francia nel 1939), partendo dal senso del sacro, definito "il più ambiguo e profondo e doppio e vermaquilino dei sensi, l'oscura continua negazione della libertà e dell'arte, e, insieme, per contrasto, il generatore continuo della libertà e dell'arte", seguì l'intero corso del suo svolgimento, dalla primitiva funzione terrificante, in orbita con un universo originariamente caotico e indifferenziato, alla sua autosalvazione con la liberazione e individualizzazione dell'uomo, che fu l'aspirazione anche del poeta Piazzolla ossessionato dal terrestre Pianeta nero (1985). Allora, ecco la sua laica profezia, un dio-uomo verrà a liberarlo dall'orrore dell'informe, dall'angoscia dell'illimitato, dell'indefinito e dell'indistinto:
Tanto più il sacro sarà relegato nel profondo, e nascosto, tanto più alto in cielo si alzeranno gli Dei; quando in noi il sacro sarà ridotto a un punto vivo ma remotissimo, a un centro solo e celato, il Dio unico si nasconderà al di là delle nuvole, fuori del tempo e dello spazio, nella assoluta trascendenza. E quando anche quel punto remoto sarà dimenticato, e della massa sarà fatta persona, anche Iddio perderà l'esistenza, e i cieli azzurri dei giorni e le notti nere muteranno il loro colore d'occhi che guardano, per diventare campi sereni a contemplare, o umanamente tempestosi, aerei specchi dell'anima.
Sulla stessa linea antropologica degli anni Cinquanta un altro significativo accostamento è pro poni bile fra Il pianeta nero (1985) di Piazzolla e La fine del mondo (1977) di Ernesto De Martino. Non allarmi il diverso campo di creatività dei due intellettuali, appartenenti a una medesima generazione, nutriti di una stessa cultura extraccademica. Qui ovviamente non considero lo specialismo tecnico dell'etnologo, ma il travaglio personale dell'intellettuale De Martino nella temperie culturale in cui visse e operò, con il suo sofferto approdo all'esistenzialismo attraverso una selva di letture e riflessioni di cui la suddetta summa indica i grandi problemi che il tema della fine del mondo gli suggeriva. Alcuni dei quali ritornano costanti nella riflessione poetica di Piazzolla, come la concezione ciclica del tempo in sincronia con il ritmo della natura e il corso delle stagioni, il mito dell'eterno ritorno che si oppone al moto irreversibile della storia; altri si riversano nella sua poesia tramutati in immagini realistiche e significati pregnanti, come l'umanesimo etnologico demartiniano, quale base di coscienza dell'altro e del diverso, nella fame dei bambini del Terzo Mondo ritratti nella poesia dedicata a Marco Pannella ("Li ho visti sulla crosta del pianeta li bambini-insetti dal ventre gonfio d'aria-lamento e [...] orridi fino a farsi sognare I da chi mangia e l'ignora I affamati da sempre fino alle stelle") e l'angoscia della fine del mondo nella scena senza riparo e senz'antidoto morale di Un po' di Apocalisse, la lirica finale che illumina di luce sinistra il pianeta terra e ne arresta con impeto il motore celeste:
Suonerà il sole le sue trombe di fuoco
sull'uscio del cielo raccolte
getteranno fiamme le nubi
gli alberi bruceranno come torce.
[. . .]
Udremo tuoni dovunque
si prosciugheranno i mari
si urlerà dappertutto.
Sarà cancellata la terra
sarà cancellato con un solo tuono
lo stesso Dio.
Giovanni Battista Bronzini