Opere » L'amata non c'è più
intervento critico di René Méjean
Giunge sempre un momento nella vita in cui l'arte, in presenza dell'ineluttabile, si rifiuta di accettarlo, meglio: entra apertamente in conflitto con esso, nel tentativo disperato di sfuggirvi (non sarebbe che a titolo di esperienza particolare, individuale dovuta a dei poteri o a dei talenti eccezionali) e anche, chi può saperlo? per abolirlo.
Così ogni poeta è egli stesso, un giorno o l'altro, a riprendere per suo conto il mito di Orfeo e dunque a discendere, attraverso un'indicibile sofferenza, nel suo inferno personale che, lungi dall'essere di fiamme, non è, nel suo cuore, che lo spazio ghiacciato dell'assenza, dell'abbandono e dell'oblio. Indicibile sofferenza che, pertanto, occorrerà bene rendere sensibile attraverso la poesia (a lui soltanto canto e parola) se egli vuole avere presa non solamente su tutto ciò che rivela dell'essere in luce (esso pure ha i suoi mostri) ma ancora sulle entità sconosciute, e per ciò stesso spaventevoli, dei mondi sotterranei.
René Méjean
da L'amata non c'è più
I Tempo
Ti chiamo col silenzio. Tu rispondi,
Appena il lume, innanzi agli occhi, trema
Come fosse stella.
Avvolta alla tua notte
Palpiti nell'aria:
Una presenza è il freddo del tuo viso.
Tu sei di là, segreta in uno specchio.
Trema la mano in un gentile addio:
Vuota dite per sempre.
E pietra resti dove il vento, sola,
Ti sprofonda in me.
Ti avvinci al buio
E, oltre il vento, forse
Odi ancora le foglie.
Al murmure infelice, nel mio cuore,
Aggiungi soltanto luce in un istante.
Somiglia al dolore volato
Il tuo volto di ieri.
Compagna della luna come al tempo
Delle rose improvvise.
Non sai chi sei; ma intanto una parola
Sale dal petto
Dove un lume ai fiori ti ricorda.
Nel gelo un filo d'aria
Offre la mia distanza
All'umile tuo nome.
Tra le mani, tu vedi
Come appassisce la tua veste rossa.
Eppure potresti urlare
Ma, in un muto punto, nella mia stanza,
Misuri la distanza tra il mio viso
E il vuoto della veste.
Non mi resta, quaggiù,
Che un semplice colore ove tu palpiti
Come la fiamma d'un antico giorno.
Ti chiamo e tu soltanto
A me più non rispondi.
Ma resta dite l'impronta sulle dita
Che accenna ad una rosa:
Rimasta, per me, soltanto ad appassire.
Nella luce, stamane, l'umile tuo viso:
Un po' di musica... null'altro!
E a volte, quando piove,
Vedo gli occhi girare per le stanze.
Io penso ai giorni spenti, al tuo sorriso,
Preso in un alone
Di pioggia eterna.
Distante dalla sedia
Dove imparo a morire,
Ti vedo e non ti chiamo
Per tema tu svanisca all'improvviso.
Io vicino a un'assenza
Tu in un cerchio lucente,
Ma più distante: un'ombra volata altrove.
Al sommo della notte
Sembra che tu venga
Come uno scricchiolio
Di mobile invecchiato.
Così ti ascolto. Taccio,
Immobile nell'oscuro
Colore della stanza.
E mi travolge il minimo fruscio
Come fosse un tremito di vesti
Appese ad un ricordo.
Allora gli occhi fissano un'effigie,
Nel marmo incastonata:
Per una ferma eternità d'amore.
Tortore sfioreranno, con lento volo,
Il tuo chiaro profilo, dove a notte
Vi è un filo di lenta luna.
Non dire nulla al vento.
Non dire chi sei.
T'immagino sospesa,
Gentile più d'un raggio, sul mio sgomento.
Tu, sola, nel chiarore
D'un al di là che ignoro.
Forse la luce
T'è radice segreta.
E, muta, viaggi
Se una stella ti è vela
Dove il cielo s'allunga
E al cuore, sopravvissuto,
È silenzio d'aurora.
Per anni e anni non c'incontreremo
Che di rado nel sogno
A notte spalancata!
Con le vesti lise, in me sommersa,
Potrai sentire,
Udire, come un tempo,
Il battito soltanto;
E poi svanire nel mio stesso amore.
Tra me vivo e te
Null'altro che un infinito silenzio d'astri;
O fiori dove il buio
È l'unica stagione.
Eppure, se ti penso,
All'improvviso gli occhi a me rivolgi,
Come fossi, d'un tratto,
Il rifugio di sempre.
Così il freddo mi sfiora
La spalla; e mille brividi
Dicon la tua presenza, fatta di niente,
Ma viva più di quanto
Non sia la vita mia.
[...]