Per un bilancio critico di « Poesia Nuova
»
di Alberto Frattini
La testimonianza delle riviste assume per la
storia letteraria del Novecento una funzione insostituibile in quanto
consente — sul filo di convergenti interessi e tensioni, quali si
riflettono nella pur temporanea e magari provvisoria ma quasi mai del
tutto casuale cooperazione di alcuni scrittori — la capillare
ricostruzione di aspetti orientamenti problemi di fondo che, entro il
più vasto ambito dell'intera dinamica culturale, caratterizzano,
in un fitto tessuto di riflessi, reazioni e osmosi, le incessanti
metamorfosi della civiltà delle lettere nelle sue varie forme.
Non è sfuggita l'importanza di tale funzione ai critici ed agli
storici della nostra letteratura del dopoguerra, anche se ci sembra, in
particolare per quanto riguarda la poesia, che i lavori di verifica
debbono ancora essere sistematicamente estesi ed approfonditi. Non
sarà pertanto inutile qualche chiarimento su una rivista degli
anni Cinquanta, « Poesia Nuova » (della quale chi scrive fu
cofondatore e condirettore): che si trovò ad operare in un
periodo — il quinquennio 1955-1960 — in cui alle forti sollecitazioni
innovative del dibattito socioculturale e ideologico del tempo solo di
rado corrispondono, sul terreno della poesia realizzata, soluzioni
linguistiche e stilistiche vitali e persuasive.
La nascita di « Poesia Nuova » chiama in causa un'altra
rivista romana, « Il Fuoco », alla quale va il merito di
avere promosso e realizzato, nel 1954, il primo Convegno della giovane
poesia italiana del dopoguerra. Tale incontro concorse validamente a
dimostrare, attraverso i contributi e le testimonianze dei giovani
poeti e dei critici intervenuti, la concreta presenza di una poesia
nuova maturatasi, pur fra incertezze, carenze ed equivoci, nel primo
quinquennio postbellico, e mirante ad affrancarsi dalla gravosa ipoteca
dell'epigonismo ermetico affermando, in una rinnovata coscienza dei
valori umani, l'istanza di una apertura all'alterità, che
forzasse l'astrazione intellettualistica, e rifiutasse l'introiezione
solipsistica risolta nell'analogismo oniricamente sfrenato: ormai un
gioco a freddo della tecnica, una finzione senza radici di
verità. Scriveva Henri Bedarida, ricapitolando le proprie
impressioni sul significato di quel Convegno e sullo spirito che lo
aveva animato: « Incarnandosi nella parola e nel discorso, la
poesia viene ad incarnarsi anche nella realtà umana, ad assumere
quella funzione che le è riconosciuta generalmente,
giacché non siamo più al tempo in cui si poteva parlare
di escludere i poeti della repubblica. Nel mondo attuale, minacciato di
dissociazione, di divisione e di disintegrazione, alla poesia rimane il
compito di ricreare l'uomo, permettendogli di vincere i suoi contrasti
e, ritrovando l'atto creativo, di ricomporre la propria unità
». Fu proprio accostandosi e consentendo a tali considerazioni e
prospettive che Pietro Calandra, venuto dalla Sicilia sulle Dolomiti
per seguire i lavori del suddetto Convegno, pensò di far sorgere
nella nativa Alcamo una rivista di poesia e mi invitò a
condirigerla ed a preparare con lui il piano di lavoro. Il quale fu
condensato in una breve premessa del primo fascicolo, datato
gennaio-febbraio 1955: non intendevamo avviare una rivista di movimento
ma « nemmeno di semplice documento o di confusa antologia
»; non avevamo poetiche di corrente da proporre né da
sostenere o rilanciare; avremmo scartato le polemiche faziose,
poiché ci stava soprattutto a cuore suscitare un dibattito
aperto sulla poesia contemporanea, e in particolare della nostra,
approfondendone il senso, le implicazioni, gli strumenti, convinti
com'eravamo che in tale scavo dovessero illuminarsi e chiarirsi gli
orientamenti, gli aspetti, le stesse contraddizioni della realtà
— culturale, morale, artistica — del nostro paese. Il nostro
antiprogrammismo riguardava dunque le poetiche prefabbricate, il nostro
« anto-logismo » non significava indiscriminata
disponibilità. Anche l'operazione antologica è
realizzabile a vari livelli, e con diversi criteri: se attuata con
rigore si fa scelta critica. Per questo, come osservava Sergio
Pautasso, « Poesia nuova ha contribuito indubbiamente a chiarire,
per la sua parte, l'idea di poesia che si è venuta definendo in
questi anni »: senza chiudersi entro le linee definite di una
poetica e di una ideologia ma anche senza rinunciare a precise scelte
(non è quindi esatto quanto lo stesso critico afferma subito
dopo e cioè che la rivista avrebbe concesso sempre largo spazio
a tutte le tendenze, eppur salvaguardando della poesia una nozione
pluralistica, libera da ipoteche teoriche e ideologiche.
A portare avanti un'analisi storico-critica della rivista gioverebbe,
preliminarmente, un esame ragionato dei poeti (una sessantina) accolti
nei fascicoli del quinquennio: da Margherita Guidacci a Pier Paolo
Pasolini, da Edoardo Cacciatore a Maria Luisa Spaziani, da Francesco
Tentori a Enzo Mazza, da Roversi a Turoldo, da Leonetti a Landi, da
Pignoni a Crovi. Si può dire che quasi tutti i poeti giovani
più significativi degli anni Cinquanta siano qui presenti, a
delineare per un verso una sorta di mappa interregionale della nostra
poesia, dall'altro una sinossi dei campi di tensione, in essa attivi
(non di rado con positive interferenze) sia nel senso dell'istanza
realistico-sociale o di quella più propriamente etico-religiosa,
sia nell'ambito di una ricerca più specificamente concentrata
sull'innovazioni-smo ideo-linguistico e dunque a livello socioculturale
non meno che tecnico-sperimentale (non si dimentichi che la
fondamentale esperienza di « Officina » si matura in un
periodo coevo: 1955-1959). Si potrebbe osservare, in questa
ricognizione sulle presenze, che un nucleo abbastanza consistente di
esse richiama a quella « scuola romana » — secondo
l'indicazione proposta nel 1950 da Giorgio Petrocchi — che
spontaneamente si raccolse intorno al gruppo del Canzoniere di Accrocca
e Vi-valdi: dallo stesso Accrocca a Giovanni Giudici, dal sotto
scritto a Ugo Reale, da Orlando P. Capponi a Franco Simon-gini, da
Marino Piazzolla a Giuseppe Zagarrio. Ma altri poeti operanti in
quest'« area » romano-laziale, che la rivista ideata e
diretta tra Alcamo e Roma propose all'attenzione debbono ricordarsi: da
Francesco Carchedi a Romano Romani, da Carlo Martini a Francesco
Nicosia, da Luciano Luisi a Lamberto Santilli, da Biagia Marniti a
Giuseppe Selvaggi, da Massimo Grillandi a Pietro Cimatti. Se volessimo
poi risalire agli esordi ed alla graduale formazione di questo
singolare « gruppo-antigruppo » (su cui varrebbe la pena di
approfondire organicamente una ricerca) occorrerebbe non trascurare
un'altra rivistina romana quasi sconosciuta dell'immediato dopoguerra,
« Accademia », che in una sorta di « nuova serie
» curata dall'autore di questo ragguaglio, tra il febbraio 1949
ed il maggio 1950, presentava alcuni giovani — da Giudici ad Accrocca a
Tentori — il cui nome avrebbe significato qualche cosa nella poesia
italiana del successivo ventennio.
Per tornare al lavoro svolto da « Poesia Nuova » la
rivista, coerente con i propri intenti, avviò con il secondo
fascicolo (marzo-giugno 1955) un'inchiesta sulla « poesia
italiana d'oggi » (dove « oggi » chiaramente limitava
l'indagine alla situazione degli anni Cinquanta). L'inchiesta mirava,
da un lato, a far venire allo scoperto i più qualificati «
addetti ai lavori », affinchè si pronunciassero non
ambiguamente sulla nostra poesia, in particolare quella giovane, del
decennio 1945-55; dall'altro ad impostare un approfondimento del
rapporto dialettico tra poesia fra le due guerre e poesia del
dopoguerra, sollecitando anche l'intervento degli « autori
» e dei loro interpreti nelle due stagioni. I risultati
dell'iniziativa furono decisamente positivi proprio per la
varietà delle prospettive in cui vennero a collocarsi i singoli
interventi; dai poeti meno giovani, di diversa estrazione e tendenza
(Bartolini, Villaroel, Laurano), al critico più autorevole dei
« Lirici nuovi » (Anceschi), ai poeti ed ai critici
più seriamente impegnati delle giovani generazioni (dalla
Guidacci a Erba, da Assunto a Barberi Squarotti, da Chiara a Paolini,
da Zagarrio a Pento, da Mazzoli a Gerola, da Petrucciani a Pautasso).
Le contrastanti posizioni assunte in quel dibattito in rapporto sia
alla tradizione sia ai possibili sviluppi della nostra poesia
offriranno sollecitanti spunti ad una ricognizione organica, che
auspichiamo, su « Poesia nuova ». Della quale altre
direzioni d'interesse e di ricerca dovranno considerarsi: a cominciare
da quell'apertura internazionale che si concretò, a partire dal
primo fascicolo del secondo anno, nella sezione « Orizzonte
europeo » ove apparvero, talora con sapore di primizia,
ricognizioni antologiche e saggistiche relative a vari paesi: dalla
Romania all'Olanda, dalla Germania alla Francia, dal Belgio
all'Inghilterra alla Grecia.
Un altro aspetto forse non meno importante della rivista fu quello di
aver avviato una revisione critica della nostra tradizione poetica
recente con l'intento di reagire a certe impostazioni che nel quadro
della nostra storia novecentesca privilegiavano la linea cosiddetta
ermetica sino a ridurre poeti anche importanti ma ad essa non
riconducibili ad un preciso ruolo di « minori »: presenze
laterali se non proprio marginali. Mentre — come bene intese un
valoroso italianista francese, Georges Mounin — una verifica della
vitalità, dell'originalità, dell'autenticità deve
anche e forse soprattutto effettuarsi sul terreno meno direttamente
battuto dalle suggestioni del simbolismo e del surrealismo. Non
è dunque un caso se, in questo quadro interpretativo della
poesia italiana fra le due guerre, le « riletture »
riguardino poeti come Saba, Betocchi, Sbarbaro, Grande, Caproni. Henri
Bedarida, che presiedette il Convegno di Andalo, poteva, come
osservatore straniero, formulare per la poesia italiana un augurio: che
si orientasse cioè più decisamente « verso un
umanesimo che, per essere concreto, generoso e libero, escluda nel
campo tecnico ogni acrobatico artificio, nel campo ideologico un
impegno troppo assoluto e troppo direttamente politico, nell'ordine del
pensiero gli eccessi dell'intellettualismo. Forse un buon numero di
poeti che la rivista alcamese-romana accolse nei suoi fascicoli non
avrebbe considerato quell'augurio in una prospettiva tutta da
respingere. Sappiamo bene che la poesia non si fonda né si
rinnova con i programmi o con i buoni auspici e altrettanto chiaro
è che oggi la poesia post-lineare (come impeccabilmente la
chiama l'amico Machiedo) è su posizioni assai distanti da quelle
auspicate da Bedarida. In fondo è anche vero quanto Cocteau
affermava che la poesia « est toujours autre chose ». Il
rischio maggiore è quello di fraintendere la carica vitale del
paradosso ed intendere la poesia nulla più che un gioco: magari
di prestigio.
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