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"Gli Anni del Silenzio" di Marino Piazzolla

Carini Editore, 1972

dalla prefazione di Giuseppe Aventi

Io, del poeta Marino Piazzolla, sono amico da tempo. E ho potuto, nel tempo, seguire gli sviluppi e, vorrei dire, le variazioni (un termine musicale appropriato) del tema che resta unico e vera mente suo, nei modi diversi, nelle esplorazioni dispiegantisi, nelle tonalità di volta in volta sfumate o prorompenti. Sono dunque abbastanza informato, e nel contempo abbastanza appassionato, per dettare qui un preambolo a una raccolta di poesie inedite, insieme a una sorta di compendio dell'attività poetica di lui, di questo Marino Piazzolla, personaggio davvero sconcertante nella società letteraria italiana. Non mi sembra che in questa società egli si sia, come si dice oggi, integrato. Ha vinto molti premi letterari, ma è rimasto in una sua solitudine fantasticante, tanto accesa da tener lontani, anche se ad essa si accostano ammirando, gli astanti, e gli stessi amici. Si può essere presi, leggendo la sua poesia, da un così forte stupore e turbamento da impedire anche al consenso e alla amicizia di manifestarsi pienamente. E' un caso, questo di Marino Piazzolla, sul quale dovrò tornare nel corso di questo mio breve scritto, e col quale lo chiuderò, con accenti che fin da ora mi si prospettano molto aspri, e con rampogne abbastanza brucianti.
Nella sua giovinezza, Marino Piazzolla visse a Parigi. Si può segnare come un esordio un saggio sulla novellistica e sul teatro di Luigi Pirandello, il quale, poco dopo aver ricevuto il premio Nobel, passò qualche giorno nella capitale francese, ospite del barone Ocampo. Ci fu allora una riunione attorno all'illustre scrittore siciliano, e Marino Piazzolla lesse, in quella riunione, il saggio cui ho accennato.
Pirandello si meravigliò, è la parola giusta: si meravigliò di come profondamente e sottilmente un giovane avesse scrutato e interpretato l'opera sua. Del resto, altre testimonianze ebbe Piazzolla da sommi poeti e scrittori francesi. Paul Valéry, dopo aver letto uno studio del Nostro su di lui, ebbe a scrivergli queste parole: « Il vostro articolo sulla mia opera poetica è molto giudizioso, e ricco di quelle finezze che soltanto i poeti posseggono e sanno usare, allorché si accingono, e con amore, a scendere in fondo allo spirito di un altro poeta, per fissarne, in omaggio alla chiarezza e alla incantevole oscurità, le segrete magìe ».
Soltanto i poeti — disse allora Paul Valéry: e invero, passato alcun tempo, comparve sulla rivista francese Arts et Idées la prima opera poetica (o meglio, un poetico mito) di Marino Piazzolla: Pèrsile e Melasia — di cui ancora Andre Gide potè dare, nel suo modo conciso, asciutto, ellenico e insieme protestantico, un giudizio pertinente e presago: « La poesia di questo giovane poeta italiano, gustata leggendo il mito Pèrsite e Melasia, mi è parsa inventata ed espressa con quella patetica innocenza con cui i lirici greci inventavano i loro bellissimi canti ». Piazzolla tornò poi nella sua Puglia nativa, così prossima alla Grecia: prima di lasciare Parigi, aveva pubblicato colà, nel 1939, due raccolte di poesia: « Horizons perdus » e « Caravanes ». Nel 1940 pubblicò in Italia, in versione italiana, il Persite e Melasia, e la raccolta di poesie Le ore bianche. Poi ... un intervallo che può sembrare lungo, ma ogni poeta ha le sue soste, le sue contemplazioni, i suoi tempi, dove non s'interrompe il suo lavoro: esso continua in modo più occulto che palese, ma prepara gli esiti prossimi. A quel periodo appartengono le poesie qui raccolte.
La vicenda che ho qui sommariamente delineata potrei anche considerarla come un preludio, un accenno, una tonalità che attende di essere concertata. Ripenso alle parole di Valéry (« incantevole oscurità ») e di Andre Gide (« patetica inno cenza »). Dopo quel periodo di occulto silenzio, quella musica torna a farsi udire: sono (1951) le Elegie Doriche, titolo significativo, come sono significative le parole che esse suggerirono al critico letterario e musicale Piero Dallamano: udiamole brevemente: « Quale fu la traiettoria compiuta dal Piazzolla ? Nelle Elegie Doriche s'incontra veramente, come già detto da Gide, la greca e felice brevità dell'epigramma antico: semplicità, immediatezza e fanciullesca lievità di visione costituiscono il dono più evidente di queste poesie ». (Fra parentesi, le Elegie Doriche meritarono, insieme a liriche di Umberto Saba, il premio Etna-Taormina (1951): nella commissione giudicatrice erano, fra altri, Luigi Russo, Massimo Bontempelli, Francesco Flora, Giuseppe Villaroel, Diego Valeri). Il su citato giudizio di Piero Dallamano sembra a me acuto, come mi sembra che un certo presentimento resti tuttora racchiuso in quella domanda del critico: « Quale fu la traiettoria compiuta dal Piazzolla? ». Appunto: il poeta aveva, in quegli anni, compiuto una traiettoria: in quella scandita, ardua, purezza greca, che era forsanche troppo facile constatare e apprezzare, si inseriva una complessità inquietante, o, come è detto nell' Ecclesia-ste, la musica semplice diveniva musica di concerto. Si legga, nelle Elegie Doriche, questo Novilunio: « Ora che il tuo abisso / con raggio antico abbagli / ora che Venere ti scorta / ed è più sola / tu incendi l'aria / e imbianchi la mia mente / dietro il tuo viaggio fulgido fra gli astri ». Un impeto infiamma e trasfigura la visione, Venere non è più sola, la luce lunare imbianca la mente del poeta, il nitore dell'espressione su se stesso si avviluppa e viaggia. Una traiettoria, che nell'animo del poeta avrà i suoi ritorni all'estasi e alla pura malinconia, come quando nel volume Le favole di Dio (1954) apparve questa mirabile Epigrafe per una etèra: « Vissi un tempo / e poche lune contai. / Fui solo amante / e mi calmò la terra / fertile d'erbe sulla mia bellezza ». Ma il viaggio del poeta Marino Piazzolla verso le trasfigurazioni e 
le metamorfosi era cominciato, e non si fermerà fra i ritmici fulgori delle immagini ma investirà le cosmogonie, fino al silenzio di Dio...

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