"Agalmata" di Marino Piazzolla
Casa
Editrice L'Albatro, 1984
dalla
prefazione di Carlo Belli
Marino Piazzolla raccoglie queste sue nuove poesie sotto il titolo Agàlmata, prestigiosa parola con la quale i Greci indicavano i gioielli, le cose di pregio. Che i suoi versi abbiano qua e là il lucore delle pietre preziose, è vero. Ma non a questo vuole alludere il titolo greco, bensì al mondo cui questi versi si ispirano, che è il mondo della bellezza greca, attraverso i capolavori della sua immortale scultura.
Abituati, come siamo, a considerarli dal punto di vista critico-storico, ci prende come un lieve sussulto nel riconoscerli attraverso immagini, similitudini, voli lirici lievi, eppure incisivi. Occorre ricordare, qui, che Marino Piazzolla, la
grecità ce l'ha nel sangue. "Persite e Malasia", "Elegie Doriche", "Amore greco", "Dolore greco", sono titoli di altre sue assai pregevoli raccolte poetiche. Si direbbe ch'egli non possa concepire altro costume di quello che illuminò per secoli la penisola greca: una etnìa fatta di certezze nella bellezza fisica e metafisica saldamente unite, concetto-madre, questo, del bene, del giusto, del vero. I dubbi morali e sociali che oggi ci turbano, derivano in gran parte dal crollo di questa fede. " E' mai possibile", diciamo, che la bellezza visibile, che è bellezza esteriore, sia veste sicura di bellezza interiore ? Uno spirito inferiore di alta quota, come potrebbe allora albergare in una forma brutta, orrida? Rispondevano i Greci: "l'eccellenza delle qualità interiori — la virtù, determina naturaliter la bellezza del tessuto fisico.
Radicati in questa convinzione, tanto da farne la loro stessa genètica, i Greci non si arresero mai alle prove contrarie che il mondo metteva ogni giorno sotto i loro occhi. (Socrate, che era bellissimo dentro, non lo era davvero anche di fuori...). Per essi la bellezza non
poteva essere ente scomponibile, e se la virtù portava onore, appunto per questo vestirà di sé anche le forme esteriori.
Verrà nelle età susseguenti il pragmatismo romano, e infine il razionalismo occidentale a umiliare un mito così alto, fatto dì pura essenza poetica, produttore di una civiltà mai più raggiunta; vivrà, purtroppo, il mondo in un mito contrario: quello della materia, assunta come sola certezza, producendo tecnologie atte a creare, con intelligenza, congegni complica-tissimi, capaci soltanto di distruggere l'intelligenza! Nell'era del computer, quella che ci sovrasta, saranno sempre meno coloro che riusciranno ad adoperare il cervello in proprio. Senza il sussidio di quell'aggeggio della tecnologia, nessuno saprà più dire quanto fa cinque per cinque... La speculazione tecnologica penalizza l'intelligenza individuale, ma paralizza soprattutto le ispirazioni del mondo interiore, perché concepisce il pensiero come una secrezione cellulare... Le conseguenze del Congresso di Gottinga, maledettamente operante nel secolo scorso, sono giunte puntualmente (come era previsto) cento anni dopo: oggi, impero della materia, anche l'arte ne risente. In vari suoi campi, si è giunti a una sorta di balbuzie inarticolata, che gli "intellettuali" presentano come nuova conquista...
Ebbene, chi legge Agàlmata, sente di ritrovare l'antico, eterno spirito. Un breve sussulto, come si diceva all'inizio, coglie il lettore, quando avverte che il poeta si pone con coraggioso disprezzo contro un certo "snobismo" che in nome della cosidetta "modernità", produce sgorbi e inconsistenti poltiglie nella pittura e nella scultura. A questo ormai stanco anarchismo, Piazzolla risponde con una vigorosa e insieme gentile ripresa del concetto di bellezza, inteso come canone eterno che contiene anche
la morale, riaffermando, insomma, con limpido vigore, la sua fede nella bellezza, come motore di verità. E' appunto il concetto tutto greco del
χαλοςχαγατòς
(Kaloskagathós), ossia χαλος
χαί άγατός: bello e buono, saldamente fusi in un solo blocco, dove "buono" non significa soltanto caritatevole o cose simili, ma "colmo di virtù intrinseche".
E che mai possiamo assumere come propriamente indicativo di questa fusione, se non la scultura greca? Ecco perché, a contemplarla in questa epoca di esaltazione tecnologica, produce in noi una estasi superiore. E tale sentimento vuoi cogliere, appunto, Marino Piazzolla, in brevi componimenti che hanno davvero il sapore dell'epigramma ellenico.
Procede la sua poesia con passo leggero levitando appena dal suolo: quel tanto che basta per non perdere il contatto con noi, terreni, ma pronta in ogni suo attimo a scattare verso lo Zenit.
Vorrei ch'io fossi specchio
per contenerti viva
fino alla morte. Prossima a venire.
Immagine
laggiadra. Tutta la poesia di Piazzolla è sorretta da questo tipo di échafaudage
trasparente, immateriale, eppure così incisivo.
Ecco:
Scalpitano bianchi nell'aria
cavalli fermi al galoppo.
Hanno zoccoli contratti e cosce
impetuose
ma libere criniere
ferme nel vento
che stampò una eco
volando.
Cavalli fermi al galoppo. Viene alla mente la immagine del teleschermo, quando si arresta di botto. Mi pare che non si poteva cogliere con maggiore efficacia la visione di questa
scultura, quasi eco di una eco stampata dal vento volando.
Si tratta di un celebre gruppo equestre, ahimè!, qua e là mutilato, come del resto, la maggior parte dei capolavori scultorei giunti fino a noi. Il tempo azzanna il marmo, come fosse tenera carne umana.
Ecco lì, una Gorgone rotta, in pezzi dopo aver scavalcalo l'arco dei secoli. Ciò che di essa rimane è detto così:
Per millenni starai
bellezza devastata.
A pensarla, mette paura. Vedete l'efficacia di un verbo — starai — buttato lì come un sasso...
E ancora, immagini abissali: di un'altra stupenda statua giunta a noi assai mutilata:
scheggiati il naso
e la bocca fino al mento.
L'orecchio intatto
ascolta — conchiglia —
il murmure dei cielo.
Si espande lo spirito del poeta in effusioni sempre più ampie. Nella gigantomachia che ci presenta un intreccio di corpi scavati nella pietra, le due ancelle seguono il guerriero in fuga come volessero trattenerlo...
ma rotte le braccia
per l'eternità
non stringono che il vuoto.
Il pensiero corre allora al rapporto spaventoso che si tende tra il tempo e noi, umanità; noi compreso ogni essere che vive, animale o vegetale. Ci è concesso di rimanere accesi per una frazione di attimo che diciamo "vita", e in questo guizzo riusciamo talvolta a sprofondare in spazi che sono al di fuori della nostra dimensione, lanciati alla ricerca di misteri destinati a rimanere misteri. L'arte sopratutto è il
veicolo sul quale c'imbarchiamo per correre queste superne avventure. Sentite, sentite che cosa accade
all'Apollo di Piombino che palpita da secoli nel suo bronzo dorato:
...Suoni te stesso
e con l'orecchio ascolti
musica muta, evasa
dalla tua stessa bellezza.
E la dea Era,come appare al poeta? Ecco:
Divina ma quasi maschera
guardi chi ascolta
la tua muta voce
e aspetti nella tua bellezza
che tenebra ritorni
a fare luce sull'eternità.
Siamo approdati davvero ai margini di una
dimensione che non è più nostra, dove è possibile ascoltare una muta voce, in attesa che una
tenebra torni a far luce...
Agàlmata è dunque una raccolta di gioielli preziosi e ora riferiamo decisamente il nome greco alle poesie, oltre che alle sculture che le hanno ispirate.
Si potrebbe continuare a lungo con le citazioni, e ogni volta il critico dovrebbe
soffermarsi ad annotare il luccichio delle invenzioni, i fervorosi sprazzi della
immaginazione lanciata, si direbbe, oltre i limiti del circuito umano. Marino
Piazzolla, avverte costantemente un imperioso bisogno di mito, e si accende con fosforescenze altamente liriche, tali da presentarsi come scoppianti paradossi nel mondo dei computers. Ogni suo verso è sufficiente a folgorare la grigia
platitude collettiva, in cui vegetano oggi a centinaia di milioni, uomini che hanno abdicato alla propria dignità
individuale, vivendo in un letargo dichiarato da un solo abbaglio: assumere l'apparenza come realtà! Si affannano soltanto nella indagine
minutissima della materia, che sarebbe come se fossero in grado (e lo sono) di contare di quanti fili è composto un abito, trascurando di conoscere la persona che lo indossa. Questa seconda ricerca, che è quella vera, essi non sono in grado di farla perché gli manca lo strumento necessario: quello che soltanto il poeta sa usare: la fantasia, l'invenzione, la creatività.
Chi è quel maratoneta effigiato laggiù? Arrivano storici, archeologi, scienziati: contano le venature del marmo, pesano il blocco, calcolano l'angolo d'incidenza con il terreno, e se ne vanno contenti, con un mucchietto di cifre. Ma chi è il maratoneta? Ecco:
E' come se tu chiamassi dal buio
un'ombra che ti fu cara
e gli occhi appoggi a te stesso
così pieno di amore e giovinezza.
Ecco chi è. Adesso lo conosciamo, senza
contare le venature del marmo, pesare la grezza materia che lo tiene insieme o perderci in
calcoli esteriori. Il poeta ce lo ha rivelato:
un'anima cara, piena di amore e di giovinezza.
Già gli vogliamo bene.
Diceva giusto Marino Piazzolla quando, parlando di sé in una breve biografia, osservava: "Nella dimensione del tempo, tutto ciò che abbiamo vissuto ci fa ombra e penombra. Allora si evoca, si chiama in silenzio ciò che siamo stati e non siamo più. Si chiama con disperazione il tempo che non è ancora. 'E lo spirito di Grazia che ci riscatta sullo spirito di aridità che è lo spazio".
Trema in questo pensiero una inconscia eco esiodotèa. Vedete? Siamo al punto da cui si era partiti: la grecità. Marino è un greco del IV o del V secolo, nato per sbaglio duemilacinquecento anni dopo, in terra di Puglia. Ricco di un afflato interiore, quasi carico di esperienze retroattive, parte e si stabilisce a Parigi, già negli anni trenta. Indimenticabile giovinezza, fiorita in un eccezionale clima
culturale. I suoi amici e maestri saranno Paul Valéry, Eluard, André Gide, Claudel, René Méjean che diventerà il suo più diligente esteta, e ancora una eletta cerchia di artisti e spiriti colti. Ecco un suo primo saggio poetico:
Persite e Melasia. Appare sulla rivista Arts et Idées, suscitando sùbito un interesse assai vivo, forse inatteso: è approdato a Parigi, un greco nato presumibilmente duemilacinquecento anni fa. Se ne accorge
André Gide: "La poesia di questo giovane poeta italiano", così scriveva, "mi è parsa inventata ed espressa con quella patetica innocenza con cui i lirici greci inventavano i loro bellissimi canti".
Questo rilievo sulla "grecità" del giovane poeta sarà il motivo conduttore di tutte le critiche future, e non perché Gide fosse stato il primo ad
accorgersene, ma perché di "grecità" è colma davvero la vena poetica di Marino Piazzolla, fino a scoppiarne. Salvatore Quasimodo, Giuseppe Aventi, Francesco Flora, Enzio Cetrangolo, Giuseppe Villaroel, Piero Dallamano, Corrado Covoni, Luigi Russo, Emilio Cacchi Pietro Cimatti, parlando di Marino, toccheranno irresistibilmente questo tasto della
"grecità". La quale fa capolino nel poemetto Lettere della sposa demente, che l'Aventi, altro appassionato esegeta del Piazzolla, giudica: "un capolavoro della poesia europea di tutti i tempi", e che piacque molto anche a Emilio Cecchi, tanto che gli fu padrino al "Premio Marzotto" del 1961.
Erano già trascorsi parecchi anni dall'indidimenticabile soggiorno parigino di Piazzolla; da quel mitico Pèrsite e Melasia pubblicato in francese, che gli aveva aperto le porte della più acuminata critica francese. Già allora egli era a tal punto padrone della lingua da potersi laureare alla Sorbona con una difficile tesi
sulle poetiche da Aristotele all'abate Brémond! Lo stesso J. P. Sartre, dopo aver letto le poesie pubblicate sui giornali di lassù, gli scriveva: "Se io avessi potuto parlare con voi, vi avrei detto con quanto interesse ho letto le vostre poesie in francese, o come mi hanno colpito per la conoscenza profonda della lingua francese che, in esse, dimostrate".
Non è una novità osservare che la cultura francese è sempre stata affascinata dal mondo greco, e quindi anche da ciò che le assomiglia. In Italia, e le ragioni sono ovvie, si è sentito piuttosto il peso della cultura latina, retaggio ritenuto sacro, anche se, talvolta, ampolloso e retorico al confronto della
levitas ellenica.
'E dunque, comprensibile la sùbita adesione della crème parigina alle sprizzanti effusioni liriche del poeta italiano
έλληνισμοΰ
πληροΰται, colmo di
grecità.
Con queste effemèridi, non pensiamo di esserci scostati da Agàlmata, la teca che contiene le reliquie della più esaltante scultura d'ogni età, liricamente riproposta dalle fluorescenti, quasi incaptabili eppure soavi, immagini di Marino. Le quali riescono a riscattare capolavori ormai esausti, perché consumati da millenaria, universale ammirazione. Chi più sussulta, per modo di dire, davanti a un gruppo come Amore e Psiche? Il gruppo è lì, quasi inerte si direbbe, succhiato avidamente da un culto secolare: gli sono rimaste sì, le forme esteriori, ma quel soffio interno che lo rendeva come divino, si è spento fino a degradarlo in luogo comune: il consumo cosi lo ha ridotto.
A riattizzare quell'alito divino, giunge Piazzolla: gli bastano una decina di versi vellutati, sussurrati quasi da una voce nascosta; gli basta un bisbiglio musicale per ridare la sua
primitiva luce al grande capolavoro:
Arde sulle due facce
e quasi il bacio le labbra
accosta ed improvviso
un rossore
dilaga sopra i volti
e gli occhi avvince
a una dolce voglia d'amore.
Pieno il tempo d'anima
in un lampo
sfiora i corpi di pietra e aurora
s'alza sul mondo.
Un testo dove la poesia sembra abbandonare addirittura il veicolo della parola, e farsi musica.
E questo scintillante miracolo della riattivazione di capolavori spenti dal consumo, si rinnova per
l' "Auriga di Delfi", per la "Venere di Milo", per la "Vittoria di Samotracia", per il "Gallo morente", e così via, gemme che una volgare
consuetudo aveva coperto con un velo opaco. Ed ecco giungere Marino a svelarle, restituendo a esse tutto il loro fulgore.
Questo, mi pare, è il più alto significato di Agàlmata, scrigno celeste che illumina di luce folgorante oltre novanta capolavori.
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