Francesco Muzzioli

Pizzuto in carteggio

Come leggere un epistolario? Questa domanda riguarda, spero sia chiaro, il senso da dare alle lettere degli autori, una volta che sia stato fatto tesoro del loro valore documentario. Le missive, in fondo, sono messaggi che hanno già raggiunto il loro destinatario e quindi non dovrebbero avere più niente da dire agli altri; quando noi le leggiamo ci sentiamo come degli estranei indiscreti, destinatari aggiuntivi e imprevisti. Dovremmo allora lasciarle solamente allo storico e al filologo?

Una simile domanda è applicabile anche al carteggio tra Antonio Pizzuto e Gianfranco Contini, pubblicato per l’ottima cura di Gualberto Alvino. Il valore documentario c’è tutto, sia per le notizie biografiche, che per i segreti di laboratorio che potranno certamente aiutare gli "eroici" (ma, si spera, sempre più numerosi) studiosi dell’opera.. Né mancano le curiosità: quando qualcuno si deciderà a scrivere la "storia quotidiana della patologia letteratria in Italia" potrà trovare qui notizia di un Montale "rinoscopo" e di un Croce spetezzante.

Ma non è tutto. Intanto, una corrispondenza tra autori di questo livello possiamo leggerla anche con l’attenzione ai valori della scrittura. Proprio pensando alla lettera come genere; e genere, per di più in estinzione. Perché questi sono gli ultimi epistolari in cui la lettera possiede ancora una qualità stilistica "alta": dopo verranno gli anni della comunicazione telefonica e dopo ancora quelli della posta elettronica (ritorno alla scrittura, sì, ma ad una scrittura-a-perdere che, per farsi contatto veloce, lascia passare errori, approssimazioni, incurie: l’e-mail è "senza stile"). Invece, Pizzuto e Contini: che scrittura, ragazzi! Queste lettere sono tutte pezzi straordinari di bravura, sorrette come sono non solo da un enorme bagaglio culturale (basta controllare quante lingue adoperano, quei due!), ma anche da una carica umana piena di simpatia e di ironia. Se per lo scrittore Pizzuto la densità e dinamicità della pagina è scontata e siamo pronti ad apprezzare il fuoco di fila delle deformazioni (es.: l’ironico "bestsèllero"), delle metafore (l’"opalino ventre" è la TV) e delle metonimie (nella frase "dentro e oltre il Galbani", il Galbani indica l’Italia, passando attraverso il nome del formaggio Belpaese prodotto da quella ditta); per il critico Contini dobbiamo riscontrare con qualche sorpresa una attitudine non inferiore (se non quantitativamente) nell’allusione e nella sinteticità stilistica.

Un altro utilizzo di questi materiali epistolari potrebbe essere quello di servirsene per avvicinarsi al personaggio-autore. Abbiamo, attraverso le lettere, tutta una serie di dati (nomignoli, tic verbali, usi privati, oltre a confessioni: ad esempio, l’agorafobia di Pizzuto: e vi troviamo anche, in una riproduzione fotografica, la prova della sua incredibile calligrafia obliqua), dati personali che potrebbero consentire di "avvicinare" (rendere più vicina a noi) la figura dello scrittore. Potremmo, allora, scorrere il libro con una certa nostalgia per essere ancora una volta insieme agli ultimi "grandi" (il grande scrittore, il grande critico) di una evoluzione letteraria che non ci riserva più personalità di rilievo. Oppure, a non volere essere nostalgici di nulla, potremmo assistere in queste pagine ad un caso emblematico della decadenza ed estinzione della "società letteraria" in Italia (in quel torno di tempo in cui si la società letteraria si esaurisce per far posto all’industria culturale, con i suoi manager incolti e le sue brute cifre). Emblematico lo è davvero, il rapporto Pizzuto-Contini, che vede da una parte uno scrittore che, senza volerlo, si ritrova arruolato in prima fila nell’avanguardia degli autori "illeggibili"; dall’altra un critico che, pur apprezzandolo al massimo e sentendosi a lui solidale, non è in grado, pur essendo influente, di garantirgli il riconoscimento e il successo (i quali sono ormai decretati per altre vie). Emarginazione della scrittura; impotenza della critica ― il mercato pretende altro: narrativa di consumo e promozione pubblicitaria.

Ma c’è anche un terzo modo di lettura, che vorrei provare ad abbozzare ed è quella che definirei una lettura tendenziosa. Si tratterebbe, cioè, di vedere quali tendenze attraversino le mosse dei due interlocutori. Da un tale punto di vista il carteggio si decostruisce, perché emerge ― al di là della fortissima comunanza dei due "fratelli siamesi" ― una discrasia, per quanto lieve, tra l’ottica interpretativa e sistematrice del critico e quella militante dello scrittore. L’istanza che muove Contini è sostanzialmente "inclusiva": la sua adesione al testo pizzutiano e il suo entusiastico appoggio sono volti a inserire l’autore nel quadro storico senza rotture e a valutarlo con parametri di giudizio collaudati. Il tipo di interpretazione che Contini attrezza fin dalle prime battute tiene conto della complessità linguistica di Pizzuto, ma la considera come facente parte di un processo di "depurazione" (insomma, un "mondo poetico, non solo alieno da turbative immagini motorie, ma neppure catartico perché già katharo; perfettamente conoscitivo; felice-nonostante-tutto; dove il pathos, dimessa l’aggressività del sapore, è aroma soltanto"), ben interno alle coordinate della poetica classica (con quella "catarsi" addirittura preventiva) e, nel più recente, alle direzioni dell’estetica crociana del rasserenamento, in cui l’operazione di Pizzuto si configurerebbe come una "riduzione fortemente ellittica della propria autobiografia". Invece l’autocoscienza letteraria dello scrittore appare convinta del suo carattere "radicale", per quanto incompreso e inesploso. Non solo Pizzuto apertamente si schiera sul fronte opposto della narrativa di consumo (dei "libri commerciali" dice: "non ne scriverò mai a nessun patto, neanche stimolato da fame e sete" ― il che, però, non sarebbe in contrasto con un indirizzo neoclassico), ma accompagna il suo lavoro sul linguaggio con una acuta percezione di rappresentare una svolta "forte" nel panorama letterario del nostro paese: dalla "limpida consapevolezza di presentare una radicale riforma dell’arte narrativa" (corsivo mio), alla metafora della "piccola bomba atomica" con cui determina la sua posizione testuale. L’istanza che muove Pizzuto è sostanzialmente "esclusiva": proprio su questo punto sembra dissentire Contini quando, difendendo in particolare l’ammissibilità di Proust, tira fuori una grinta piuttosto inattesa ("Ti avverto che non riconoscerò mai la validità universale d’una qualunque poetica, tua od altrui"). Contini arriverà ad attribuirgli una "avanguardia senza programmatico avanguardismo" (che equivale a un apprezzamento che non turba il panorama con ingombranti pretese progettuali, di tendenza); Pizzuto sembra cercare le "Tavole della Legge", ovvero un punto-di-non-ritorno nell’arte del narrare.

Se proprio si vuole vedere in Pizzuto un "essenzialista" (che opererebbe nel senso della "sintesi categorica" del vissuto), lo è certo in un grado estremo. L’estremismo nella caparbia e diuturna ricerca della parola, attestato da molte lettere, indica quale abisso si apra tra il punto di partenza (il vissuto) e il punto d’arrivo (il testo). Tutte le contrapposizioni che la poetica di Pizzuto stabilisce testardamente ― narrare vs. raccontare; qui anche messaggio vs. registrazione (“Se la narrativa del nostro tempo è registrazione… la mia è messaggio") ― si fondano su una differenza testuale, di tipo semiotico, rispetto alla mediazione comune tra il vissuto e la scrittura. L’aumento della distanza (l’estremismo, appunto, di Pizzuto) fa sì che il testo ci comunichi una contraddizione: noi comprendiamo che c’è una base di esperienza (spesso la ipotizziamo come la più normalmente quotidiana che ci sia); ma questa base è irriducibile in modo trasparente, perché ormai trasposta (attraverso raffinatissimi e intrecciati passaggi retorici) nella immagine del frammento e nella testura della complessità. Quanto a ciò, sia voluto o meno, Pizzuto sta a buon diritto nella linea della modernità più avanzata. E, in quanto testo della contraddizione, forse sarebbe opportuno riaprire anche il capitolo della allegoria in Pizzuto. L’autore in prima persona sconsiglia tale attribuzione (nelle lettere, parla di "narrazione pura, assolutamente asimbolica e anallegorica"), intendendola nel suo significato classico di "metafora continuata": ma noi, che ormai (dopo Benjamin e la decostruzione) usiamo allegoria per dire il decalage interno del testo, possiamo provare a leggere Pizzuto in questa nuova chiave.

Anche la lettura del carteggio, dunque, collabora ad affrontare il problema: cosa fare di Pizzuto? La prospettiva di inglobarlo nel canone, così semplicemente, va a tutt’oggi incontro allo sbarramento che viene opposto allo scrittore siciliano in tutte le sedi ufficiali. Vale la pena di non affaticarsi in tali inutili sforzi e di provare un’altra via, costruendo piuttosto, attorno all’autore di Paginette, un "anticanone" del Novecento.